Per anni la carriera di Billie Eilish è stata raccontata da interviste su Vanity Fair e documentari. Quell’apparente mancanza di confini tra l’artista e il suo pubblico è sempre più comune per le grandi star, ma la musica intima di Eilish ha reso questo aspetto ancora più evidente. Il suo album del 2021, Happier than ever, era una risposta all’attenzione morbosa del pubblico ed era più maturo rispetto al debutto When we all fall asleep, where do we go?, del 2019. A detta di Eilish, l’obiettivo di Hit me hard and soft era realizzare un “album cazzuto” e ha citato Viva la vida dei Coldplay e Big ­fish theory di Vince Staples come influenze. Questi dischi erano ambiziose epopee pop in cui artisti affermati mettevano in mostra il loro talento, ma c’era anche un outsider come Brian Eno o Sophie che faceva uscire i musicisti dalla loro zona di comfort. Con il fratello Fin­neas sempre al timone, Hit me hard and soft è più o meno la solita cosa, anche se ci sono gli archi dell’Attacca Quartet e il batterista Andrew Marshall, per la prima volta con Eilish in studio oltre che dal vivo. L’album passa dalla trance minimalista al rock da stadio, ma manca una svolta: questi brani sono solo versioni più ambiziose di quello che ha già fatto. La sperimentazione dimostra i limiti dei fratelli. Hit me hard and soft è solo un altro buon disco di Billie e Finneas: certamente è di buon gusto, ma tutti i bravi musicisti del mondo non bastano a renderlo un capolavoro.

Hannah Jocelyn, Pitchfork

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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati