Lungo la costa meridionale dell’Islanda c’è una zona di campagna che fino a quindici anni fa era praticamente vuota. I proprietari l’avevano coltivata per decenni, ma poi si erano trasferiti a Reykjavík, a tre ore e mezza di distanza. Pochi visitatori raggiungevano quell’area che, oltre a essere un pascolo eccellente per le pecore, è attraversata da un canyon stretto e scosceso che sembra uscito dal Signore degli anelli.
Tutto è cambiato intorno al 2013, quando alcuni intrepidi viaggiatori hanno cominciato a pubblicare le foto del canyon sui social media, a volte includendo la geolocalizzazione. Improvvisamente chiunque avesse a disposizione una connessione internet poteva seguire le indicazioni per raggiungere quella splendida località fuori mano. Nel 2015 Justin Bieber è arrivato lì con la sua troupe per girare il video di I’ll show you. “My life is a movie and everyone’s watchin’” (La mia vita è un film e tutti lo guardano) canta Bieber. Il video ha raggiunto più di mezzo miliardo di visualizzazioni su YouTube.
In poco tempo il numero di visitatori del canyon è aumentato da tremila a trecentomila all’anno, come mi ha detto un dipendente dell’agenzia per l’ambiente islandese. All’inizio non c’era un parcheggio né tantomeno bagni, sentieri o segnaletica per le folle di turisti. Senza nessuna infrastruttura a proteggerlo, il paesaggio si è trasformato in un pantano.
È facile constatare gli effetti del video di una celebrità come Bieber su un posto del genere. Ma che dire dei contenuti di viaggio prodotti da un qualsiasi utente dei social media? Anche gli account con pochi follower hanno più influenza di quanto si pensi ed è un potere che tutti dobbiamo usare con cautela. In un sondaggio del 2019 quasi la metà degli intervistati ha detto di cercare ispirazione per i viaggi dagli influencer, mentre l’86 per cento sceglie la destinazione in base ai contenuti condivisi da amici, familiari e colleghi. Tra i giovani della generazione Z la quota sale al 92 per cento. In fin dei conti, le foto delle nostre vacanze interessano davvero a qualcuno, almeno quando appaiono sui social media. In un sondaggio del 2017 condotto nel Regno Unito nella fascia d’età 18-30 anni, il 40 per cento degli intervistati considerava “l’instagrammabilità” di un posto il primo criterio per decidere dove andare in vacanza.
L’idea di considerare una destinazione di viaggio come un luogo da collezionare sul proprio profilo Instagram riporta alla mente una critica spesso rivolta alla letteratura di viaggio, cioè di consolidare i cliché coloniali o, peggio, di crearne di nuovi. Se da una parte i social media hanno creato un’esplosione di nuovi e diversi “scrittori e scrittrici di viaggio”, dall’altra hanno spinto tanti a vagare per il globo in cerca di persone e panorami da sfruttare.
Motivi ricorrenti
Sean Smith, ricercatore dell’università di Tilburg, nei Paesi Bassi, è convinto che Instagram non sia solo un divertimento: le immagini condivise sull’app offrono un quadro delle ideologie su cui si basa il turismo di oggi. Smith ha analizzato alcune categorie di post che perpetuano stereotipi coloniali: “l’esotico tropicale” (un turista solitario in posa tra le rovine cambogiane); “lo sguardo dal promontorio” (Bieber sul bordo di una scarpata mentre osserva il paesaggio islandese); “l’assimilazione immaginaria” (la turista vestita con un sari in posa con un gruppo di donne indiane, per avere una foto da mostrare alle amiche). Lo studioso sostiene che questi motivi visivi ricorrenti, pervasi di echi coloniali, presentano le destinazioni turistiche come “disponibili per il possesso e il consumo”. La produzione e la condivisione continua e ripetuta di queste immagini rafforzano l’idea che i turisti abbiano il diritto di “consumare” una destinazione. Anche se molti di noi sono diventati più sensibili alle connotazioni colonialiste della letteratura di viaggio, oggi dovremmo avere lo stesso sguardo critico sui social media.
Quindi cosa dovrebbe fare una brava turista? Abbandonare i social? Non pubblicare più niente? Allettante, ma non necessario. Innanzitutto potremmo mettere in discussione il valore di ciò che vediamo su queste piattaforme, cercando di essere più attenti ai significati e alle implicazioni nascosti sotto la superficie delle immagini. E quando creiamo un post, al centro potremmo mettere qualcosa o qualcuno di diverso da noi. Potremmo condividere contenuti usando il tipo di prospettive o di storie che ci piacerebbe trovare nei post di altri che parlano di noi o della nostra città. E ricordare che i social ci danno un grande potere sulle persone che ci seguono, anche se sono semplicemente compagni del liceo o cugine di secondo grado. Le persone osservano quello che facciamo e questo influenza la loro visione del mondo. ◆ fdl
Paige McClanahan è una giornalista di viaggi statunitense. Ha pubblicato il libroThe new tourist (Scribner 2024).
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati