Donald Antrim - Ulf Andersen, Getty
Donald Antrim (Ulf Andersen, Getty)

In una fredda giornata di primavera del 2006 Donald Antrim salì sul tetto del suo condominio a Brooklyn e si arrampicò sul bordo esterno della scala antincendio. Quando guardò giù, fu come se il tempo si fosse fermato; vide sotto di lui il patio di cemento disseminato di spazzatura e il sole arancione che tramontava a ovest. Sentì un elicottero e si chiese se stesse arrivando per lui. Prima di salire sul tetto aveva chiamato un paio di amici. Sapeva che stavano arrivando, ma sapeva anche che avrebbero trovato traffico. Sospeso alla scala antincendio, lasciò andare una mano, poi si sporse di nuovo e afferrò la ringhiera. Lo fece diverse volte alternando le mani finché i suoi palmi non furono doloranti. Calò l’oscurità. Non sapeva perché fosse salito sul tetto, si fosse appeso alla scala antincendio, avesse allentato la presa, “perché toccasse a me farlo”, scrive Antrim in Un venerdì di aprile. Ma sapeva che non era stato un atto impulsivo. “Lassù sul tetto, mi sentivo come se fossi morto per tutta la vita”. Antrim aveva 47 anni e una carriera invidiabile come scrittore di romanzi e racconti brevi che pubblicava regolarmente sul New Yorker. Ma lottava con i ricordi di un’infanzia di abusi e abbandono e di relazioni sentimentali fallite. I precedenti cicli di terapia e farmaci non avevano alleviato il suo dolore. Dopo il suo tentativo di suicidio, immaginava un futuro terribile: “Povertà, abbandono dei miei familiari, incapacità di scrivere o lavorare, fine delle amicizie, oblio professionale e artistico, solitudine e disfacimento, ospedalizzazione e allontanamento dalla società”. Oggi si definisce un sopravvissuto al suicidio, una definizione che sfida la nostra tradizionale comprensione dei tentativi di suicidio. In tutto questo libro avvincente e necessario, in parte autobiografia, in parte trattato filosofico, sostiene che il suicidio è “un processo patologico, non un atto o una scelta”. Coloro che soffrono di una malattia mentale e muoiono per (o “di”) suicidio non si tolgono la vita, dice Antrim, ma la vita gli viene tolta. Non c’è volontà coinvolta quando si soccombe alla malattia. Donald Antrim ci invita a ripensare tutto: come chiunque altro sia affetto da una malattia mortale “anche il suicida vuole vivere”.
Heather Clark ,The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati