Alessia Petitto è una ricercatrice di archivio cinematografico. Di fronte a lei i materiali di archivio sono frammenti di un discorso che si ricompongono con un nuovo senso, come le parole di una poesia. Le hanno commissionato un lavoro: le manifestazioni della destra studentesca negli anni settanta a Roma raccontate da chi a quel movimento apparteneva. Ha cercato nei canali ufficiali della memoria collettiva ma ha trovato poco o niente, così ha vagato per mesi, suonando ai campanelli, fermando anziani al bar: conoscete qualcuno che può aver fatto delle riprese durante una manifestazione neofascista? Niente. Mentre prendiamo un caffè in un bar di Bolsena, mi dice che ci sono tre spiegazioni possibili: 1) non sa cercare; 2) non vogliono mostrarle quello che hanno filmato; 3) quelle immagini non esistono, cioè i partecipanti a quelle manifestazioni non hanno sentito la necessità di rappresentarsi. Semmai anzi c’è stata la volontà di nascondere. Quando è che non amiamo rappresentarci? La barista interviene: quando abbiamo la coda di paglia. O forse quando prevediamo che la nostra autorappresentazione potrà essere usata contro di noi. Non lo so. Nella grande confusione del presente, l’archivio è sempre il più saggio maestro che, in silenzio, ci risponde. Tiene cura di una memoria, sia pure spuria o scomoda. L’importante è che quella cosa, nel bene o nel male, si voglia ricordare.

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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati