“Vietato cantare” era scritto su un cartello affisso nella piazza di Amelia, dietro la chiesa, molti anni fa. Faceva subito pensare che in quel luogo la gente si sbizzarriva cantando. Anzi, cantavano tanto che a un certo punto qualcuno ha scritto “vietato cantare” e sono cominciati i problemi. Allo stesso modo, “vietato il gioco della palla” mi ha sempre fatto pensare ai ragazzini che invadono con un lancio lo spazio di una piazza, mentre “vietato bestemmiare” fa pensare alle bestemmie che a loro volta raccontano una fede (e una rabbia) in un dio. “Vietato sputare” letto sotto il finestrino di un vecchio tram di Torino mi ricorda che sì, spesso si sputava nei tram. I divieti hanno il potere magico di rendere visibile qualcosa a cui altrimenti non avremmo pensato e che appartiene a un luogo, a una cultura più del divieto stesso. Ci fanno capire la forza diffusa di ciò che è stato vietato. I recenti divieti sull’occupazione pacifica del suolo pubblico, sulle manifestazioni, sulle feste e sulle proteste, il divieto di occupare una casa vuota e abbandonata (senza però vietare che uomini e donne dormano in strada senza un riparo) mi fanno pensare a quanta paura suscita la possibilità che queste cose accadano. Se chi sta al potere impone questi divieti in un decreto sulla sicurezza pubblica, è perché immagina che tutto ciò sia possibile. Speriamo di non deludere la loro immaginazione.

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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati