Nel bar davanti alla corte nazionale per il diritto di asilo a Montreuil, nella regione di Parigi, incontro un giovane musicologo di San Pietroburgo. È turbato: ha appena fatto l’intervista che deciderà se la sua richiesta è legittima e non sa se è andata bene. Gli hanno chiesto quali sono i suoi progetti per il futuro e non ha saputo rispondere: mi confida che da quando la guerra è cominciata e lui è fuggito, non sa più fare progetti. L’unica cosa che lo salva è affrontare la vita pratica giorno per giorno. Succede, dice, anche a tanti suoi amici che sono fuggiti e che sono in attesta della decisione della corte. In questi giorni sto ascoltando alla trasmissione Ad alta voce di Radio 3 il libro La parete di Marlen Haushofer letto magistralmente da Manuela Mandracchia. Le parole del musicologo russo mi hanno ricordato i gesti semplici a cui si attacca la protagonista del libro per non impazzire, quando una parete di vetro la separa dal resto del mondo e la intrappola in uno chalet sui monti. Al di là della parete tutto è pietrificato e morto, e la vita continua solo per lei. Ha una mucca, una gatta, un cane, qualche patata. È fortunata, lo sa. Ogni tanto cammina fino alla parete e guarda il mondo immobile dall’altra parte. Ma subito distoglie lo sguardo e si concentra sulla mucca, la gatta, il cane, i germogli delle patate. Quella vita è reale, ma non sa se riuscirà a vivere unicamente di realtà. È la sua apnea una vera salvezza?

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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati