◆ Avere una figlia femmina m’era subito parsa una grande fortuna: ero ancora all’università e il fatto che lei fosse “come me” avrebbe reso tutto più semplice. Non dovevo sporgermi su un mondo misterioso, la femminilità mi appariva come qualcosa che sapevo contenere e che potevo guidare. Macché. Più vado avanti e più mi rendo conto di quanto fossi ingenua. Imbrigliare la femminilità in una definizione a senso unico è impossibile se non ridicolo. Le donne della mitologia, protagoniste delle tragedie antiche (ma per lungo tempo interpretate sulla scena da attori uomini, dato che alle donne era proibito rappresentare perfino se stesse), ce lo raccontano bene: essere donna può voler dire essere sia padrona sia schiava, violenta e docile, musa e disgraziata. La femminilità non è un attributo, ma una forza, e l’ho sentita a teatro vedendo la performance Svelarsi con la regia di Silvia Gallerano. Lo spettacolo è interpretato da otto attrici e destinato a un pubblico di sole donne. Seduta nella platea tutta femminile ho avvertito che quella forza era lì, palpabile, una forza tribale, evidente, potentissima. Qualcosa di misterioso che legava le attrici e il pubblico, quasi un vulcano pronto a esplodere. La mitologia però ci insegna anche che la vera conquista non è possedere una forza, ma saperla usare bene, e per il bene di tutti, maschi e femmine poco importa.
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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati