Per anni gli Stati Uniti hanno adottato un atteggiamento di cauta tolleranza verso Haiti, chiudendo un occhio sull’orrore dei rapimenti, degli omicidi e delle guerre tra bande criminali. La strategia più conveniente sembrava essere quella di appoggiare qualsiasi governo arrivasse al potere e offrire quantità infinite di aiuti.
L’ex presidente statunitense Donald Trump aveva sostenuto il leader haitiano Jovenel Moïse principalmente perché lui, a sua volta, aveva appoggiato una campagna per deporre Nicolás Maduro in Venezuela. A febbraio l’amministrazione Biden aveva accettato la linea di Moïse, anche se l’opposizione e le proteste di piazza chiedevano le sue dimissioni. Moïse era stato eletto nel 2016 con un mandato di cinque anni che terminava nel 2021, ma era entrato in carica solo nel 2017, quindi rivendicava altri dodici mesi alla guida del paese.
Durante il suo governo sembrava esserci una tacita consapevolezza: Haiti è una bomba che rischia di esplodere nelle mani di chiunque provi a disinnescarla. Dopotutto, perché Biden avrebbe dovuto assumersi l’ingrato compito di “rimettere in sesto” Haiti quando c’era già un presidente in carica al quale poteva essere addossata la responsabilità del deterioramento della situazione politica del paese?
Ma ora l’omicidio del leader haitiano, avvenuto lo scorso 7 luglio a Port-au-Prince, costringerà un’amministrazione statunitense riluttante a prestare più attenzione ai suoi prossimi passi verso Haiti. E non ci sono soluzioni semplici.
L’uccisione del presidente ha distrutto le speranze (per quanto inverosimili) dell’amministrazione Biden di un passaggio pacifico del potere attraverso le elezioni. Ma questo non significa che il futuro di Haiti sia interamente nelle mani degli Stati Uniti né che dovrebbe esserlo. Ogni volta che gli statunitensi sono intervenuti, per gli haitiani la situazione è peggiorata. Quando il presidente Jean Vilbrun Guillaume Sam fu ucciso da una folla inferocita nel 1915, le navi della marina statunitense erano al largo della costa haitiana in attesa di sedare i disordini, in modo da mantenere stabile il paese e difendere gli interessi commerciali di Washington. Subito dopo l’omicidio, i marines occuparono Haiti e rimasero lì per 19 anni.
◆ L’11 luglio 2021 la polizia ha annunciato l’arresto di Christian Emmanuel Sanon, accusato di aver reclutato il commando armato di mercenari colombiani che nella notte tra il 6 il 7 luglio ha assassinato il presidente Jovenel Moïse. Sanon, un haitiano di 63 anni, era rientrato nel paese a giugno per “obiettivi politici”, ha detto il capo della polizia haitiana Leon Charles. Lo stesso giorno del suo arresto una delegazione statunitense è arrivata ad Haiti per valutare la situazione della sicurezza dopo che le autorità haitiane avevano chiesto a Washington e alle Nazioni Unite d’inviare truppe per proteggere alcune infrastrutture strategiche.
◆Moïse era stato eletto nel 2016. Durante il suo mandato era stato accusato di corruzione e di usare metodi autoritari. Dall’inizio del 2020 governava per decreto. Non è chiaro chi abbia organizzato il suo omicidio e perché. Alcune figure dell’opposizione hanno espresso dubbi sulla versione ufficiale delle autorità haitiane. L’ex senatore Steven Benoit il 9 luglio ha dichiarato a una radio locale che “non sono stati i colombiani” a uccidere Moïse. Afp, Reuters
Nel 1986 la dittatura di Jean-Claude Duvalier cadde a causa di una combinazione di disordini popolari interni e manovre politiche di Washington. Solo nel 1990 nel paese si tennero le prime elezioni libere, vinte da Jean-Bertrand Aristide, un ex sacerdote della teologia della liberazione. Aristide fu rimosso da un colpo di stato nel 1991 e l’amministrazione di Bill Clinton lo reintegrò tre anni dopo.
Haiti non si è mai scrollata di dosso il giogo straniero, con l’eccezione dei giorni più bui della dittatura dei Duvalier (padre e figlio). Il paese è stato alla mercé degli Stati Uniti, ma anche della Banca interamericana di sviluppo, della Banca mondiale, dell’Organizzazione degli stati americani e delle Nazioni Unite, che hanno mantenuto sull’isola una missione di pace dal 2004 al 2017. Eppure Haiti è rimasta povera e politicamente instabile e non si è mai ripresa dal terremoto del 2010. Anche i cartelli della droga e i loro alleati haitiani hanno avuto un ruolo deleterio. Secondo alcuni osservatori, la violenza degli ultimi anni è in gran parte il risultato delle guerre per il controllo del territorio tra bande che operano al di fuori della legge.
Tornare alla normalità
Il mandato presidenziale dello stesso Moïse era traballante, a dir poco: alle elezioni aveva votato solo il 21 per cento degli aventi diritto. Tuttavia per gli Stati Uniti, e non solo, tollerare Moïse e aspettare le prossime elezioni era più gestibile del vuoto di potere lasciato ora dal suo omicidio. Biden ha definito l’uccisione di Moïse “molto preoccupante”. Ma la situazione ad Haiti era preoccupante già prima. Ora gli Stati Uniti si trovano di fronte un panorama ancora più torbido: nessun leader, nessun parlamento, un sistema giudiziario allo sbando, una polizia e un esercito poco efficienti e bande di criminali che vagano per le strade. Non si può sapere cosa emergerà da questo vuoto al vertice, forse un nuovo uomo forte o meno probabilmente un governo ad interim.
La Casa Bianca ha invitato Haiti a organizzare le elezioni entro la fine dell’anno, anche se è difficile immaginare che possano svolgersi in modo sicuro e pacifico. I problemi del paese non si possono risolvere con l’intervento di Washington, che non ha più l’autorevolezza, la forza e neanche la volontà d’imporre la propria linea. L’opzione migliore è aspettare, osservare e ascoltare la numerosa nuova generazione di democratici haitiani che possono, con responsabilità, avviarsi verso una politica più praticabile. Haiti ha ancora bisogno della collaborazione di attori internazionali attenti agli obiettivi di chi riceve il loro sostegno economico e politico. Non serve scegliere un candidato conveniente con elezioni frettolose, con i risultati che abbiamo visto in passato. La maggioranza degli haitiani vuole ricostruire le istituzioni e tornare a una vita normale: riaprire scuole, ospedali e attività commerciali, avere un piano per affrontare la pandemia, mercati alimentari efficienti, strade sicure e libere dalle bande armate. Sarebbe la soluzione migliore possibile, ma è improbabile che si realizzi. Almeno nel prossimo futuro. ◆ bt
Amy Wilentz è una giornalista statunitense esperta di Haiti.
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati