Lo ha detto senza battere ciglio. Non lo aveva fatto Bezalel Smotrich e neanche Itamar Ben Gvir, che ufficialmente non rappresentano la linea del premier Benjamin Netanyahu. Invece lo ha detto il ministro della difesa Israel Katz, esponente di spicco del governo e del partito Likud. Prima di lui, nessun funzionario israeliano si era mai spinto così in là parlando di Gaza. Avevano minacciato di distruggerla, spopolarla, occuparla – e lo hanno fatto – ma mai di annetterla. Il tabù è stato infranto: Gaza sarà israeliana o non sarà.
Il ministro si è premurato di precisare che è una tattica per costringere Hamas a rilasciare i 60 ostaggi ancora trattenuti dal 7 ottobre 2023. Forse è sincero. Forse Israele non annetterà Gaza. Forse riterrà che non ne vale la pena e che altri metodi potrebbero produrre risultati equivalenti. Ma non c’è più motivo di dubitare dei piani di Netanyahu. Alla fine della guerra, anche se Hamas sarà totalmente sconfitto, anche se l’enclave sarà totalmente smilitarizzata, anche se i blocchi egiziani e israeliani saranno mantenuti, Gaza sarà sotto l’autorità diretta o indiretta di Israele. O svuotata della sua popolazione. Visto che Netanyahu non ha limiti, tutto dipenderà dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dai paesi arabi. Dalla capacità e volontà del primo di forzare la mano ai suoi alleati per fargli accogliere i sopravvissuti, o dalla capacità e volontà dei secondi di proporre un piano alternativo accettabile per Israele. L’unica cosa che conta è il rapporto di forza.
Più passano i mesi più diventa difficile scrivere di Gaza. Siamo condannati all’indignazione permanente. A dover decifrare, analizzare e commentare il piano di Trump di trasformare l’enclave in una “seconda costa azzurra” o quello del duo statunitense-israeliano di “trasferire” gli abitanti della Striscia di Gaza in Africa orientale. Fa tutto parte dello stesso programma. È all’opera anche in Cisgiordania, dove i coloni e l’esercito, con il via libera degli Stati Uniti, stanno imponendo una nuova realtà sul terreno in preparazione di una futura annessione.
Il più forte
Sono decenni che Israele cerca di cancellare politicamente i palestinesi. Ora vuole farlo in senso letterale. Ripulire il territorio dal popolo che contesta il suo diritto divino di dominare ogni angolo di questa terra. Con il sostegno statunitense, può finalmente raggiungere i suoi obiettivi.
E l’arroganza d’Israele non si fermerà a Gaza o in Cisgiordania. Poiché è il più forte ed è sostenuto dal più forte, può agire come gli pare in tutta la regione. Può bombardare la Siria e il Libano, occupare in parte i loro territori e dettargli la condotta. Israele è ancora interessato alla normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi? E in che misura? È chiaro che non farà alcuna concessione, nemmeno all’Arabia Saudita, per arrivarci. Così come è chiaro che la cosa più importante per Israele è tracciare una linea definitiva sulla questione palestinese e rendere, più per forza che per scelta, inoffensivi tutti i suoi vicini.
È consuetudine, a questo punto di un editoriale, lasciar intravedere la possibilità di agire per invertire la tendenza. Esortare gli europei e i paesi arabi a unirsi e ad agire, almeno nel proprio interesse, perché tutto questo alla fine si ritorcerà contro di loro. Tanto più che se non saranno loro a farlo, non sarà nessuno. Ma questa volta ce lo possiamo risparmiare. Perfino le buone speranze sono di troppo. ◆ adg
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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati