Il treno delle 6.55 è di nuovo in ritardo. Mi sfugge un lamento quando vedo i secondi trasformarsi in minuti, il panico mi sale in gola. Alle sette sarà inevitabile: farò di nuovo tardi al laboratorio delle nove. Con l’avanzare dell’inverno le mattine sono diventate più buie, e ho cominciato sempre prima il mio pellegrinaggio dalla stazione di Bellville a Rosebank verso l’ambita meta dell’università sulle pendici della Table mountain. Ma più cerco di batterli, più i treni sembrano decisi a tardare. Avrei voglia di tornare indietro, rifare la mezz’ora di camminata fino a Bellville south, questa volta a passo tranquillo, ma non posso permettermi di perdere un’intera giornata di lezioni.
Mi rassegno al fatto che sarò in ritardo per il laboratorio. Non è la fine del mondo.
Questa bambina cresciuta in condizioni così difficili sarebbe andata a un’università di bianchi. Era stata più brava di tutti e ora il mondo le si spalancava davanti
Il treno arriva alle 7.09, con ben quattordici minuti di ritardo. È appena un quarto di un’ora. Ma il tempo ha una strana elasticità quando devi fare viaggi lunghi; un piccolo ritardo si moltiplica e intralcia un’intera mattinata di spostamenti. Se perdi la coincidenza a Salt River, magari poi devi aspettare lì, così vicino al campus, trenta interminabili minuti prima di poter proseguire.
Salgo sul treno, più affollato del solito. Ben mi sta. Avrei dovuto scegliere l’università in fondo alla strada, quella per gente come me. Avrei potuto perfino andarci a piedi, risparmiando un sacco di soldi che ora spendo per l’abbonamento settimanale del treno. Ma io volevo andare in quest’università. Ero la prima della famiglia a fare l’università. Perché avrei dovuto rinunciare alla mia prima scelta?
Avevo ricevuto una lettera dall’università del piano B all’inizio di dicembre. La mia famiglia aveva organizzato un pranzo che era diventato anche un incontro di preghiera, per ringraziare il Signore della mia buona fortuna, che avrebbe giovato a tutti noi.
“La mia bambina intelligente”, aveva detto la nonna. “Se qualcuno in questa famiglia ce la può fare, sei proprio tu! Grazie Gesù, tutto il mio duro lavoro è stato ricompensato!”.
Sembrava che all’università dovesse andarci lei, la nonna, che aveva finito appena le elementari.
Poi, qualche settimana dopo, quando era arrivata la lettera della mia prima scelta, l’emozione si era trasformata in stupore. Questa bambina, questa bambina cresciuta in condizioni così difficili, sarebbe andata a un’università dei bianchi. Era stata più brava di tutti gli altri al liceo e, guarda, ora il mondo le si spalancava davanti. Aveva il futuro assicurato.
Quel giorno, quando era arrivata la lettera, mia nonna aveva pianto e pianto, ringraziando Dio così intensamente che il suo sembrava un lamento, più che una preghiera carica di gratitudine. Aveva avuto il suo riscatto. Tutto quel duro lavoro, e ora la sua amatissima nipote sarebbe andata all’università elegante sulla collina. Chi poteva crederci?
Non sapeva nemmeno che avessi presentato la domanda, aiutata dal consulente per l’orientamento scolastico. L’avevo fatta un po’ per gioco. E guardate il tempismo di Dio, avrebbe detto la nonna nei giorni successivi. Non avevamo neanche bisogno di un permesso speciale, come il figlio del dottore in fondo alla strada qualche anno prima. Era il 1992. Ora una ragazza come me poteva entrare liberamente in qualunque università, se aveva cervello. E quello ce l’avevo.
Stamattina, però, è uno di quei giorni in cui rimpiango di non frequentare l’università in fondo alla strada. Perché avevo scelto di spingermi così oltre la mia posizione? Pensavo di finire il romanzo di cui dobbiamo parlare oggi durante il viaggio in treno. Ma il vagone è pieno, e il mio corpo è schiacciato tra le carni di sconosciuti. Almeno questa volta sono donne. La carrozza è così gremita che non riesco neanche a prendere lo zaino per tirare fuori il libro. E in questa calca non riuscirei comunque ad aprirlo.
Mi tengo stretta alla maniglia di plastica appesa alla sbarra che corre lungo il soffitto del vagone. Le donne ondeggiano intorno e contro di me, i nostri corpi sobbalzano mentre il treno sferraglia a un ritmo sincopato. Il sudore collettivo, umido e stantio, sale fino al soffitto, mescolandosi al respiro caldo e appannando i finestrini. Chiudo gli occhi. Aspettando i barbari dovrà aspettare. Non solo sarò in ritardo, ma anche impreparata sul finale della storia.
No, non storia. Non va bene. “Storia” è un termine per bambini, non per una studente della migliore università del Sudafrica. “Narrazione”. È questa la parola giusta. Non so come finisce la narrazione. Mi viene da piangere. Non so neanche la parola giusta per storia. Questa è già una brutta giornata, e non sono neanche uscita da Bellville.
Cinquanta minuti più tardi, dopo innumerevoli fermate lungo la linea di Bellville, arriviamo a Salt River. Per un miracolo, posso ancora riuscire a prendere il treno per Simon’s Town. Dopo appena due fermate mi lascerebbe a Rosebank, e arriverei in tempo al laboratorio. Ma quando ci fermiamo le porte del vagone, ostinate, rifiutano di aprirsi. Corpi irrequieti premono sulle doppie porte, un uomo comincia a forzarle. Sembrano passare lunghi minuti prima che finalmente si muovano e il treno ci vomiti sulla piattaforma. Salgo di corsa le scale di metallo per attraversare il ponte tra i binari due e cinque, appena in tempo per vedere il treno per Simon’s Town uscire dalla stazione. Siamo tutti in ritardo, ognuno di noi che dovevamo prendere quel treno. Arrivati a destinazione, nessuno capirà o si preoccuperà di capire perché. Ci vedranno semplicemente arrivare in ritardo; punto e basta.
Mi avvio con calma al binario cinque. Chissà quand’è il prossimo treno. Riprendo il ritmo e cammino in fretta su e giù, come se accelerare il passo potesse affrettare l’arrivo del prossimo treno. Arriva, ci ammucchiamo dentro; si ferma in mezzo al nulla tra Salt River e Observatory station. Otto preziosi minuti.
Ci muoviamo. Su questo vagone c’è meno gente, ma sono troppo agitata anche solo per provare ad affrontare l’ultimo capitolo di Aspettando i barbari. L’autore insegna nel nostro dipartimento. Qualche volta sono passata davanti al suo ufficio, ma non l’ho mai visto. Grazie a Dio non è lui a tenere la lezione per cui sono in ritardo.
Mi metto vicino alla porta in modo da scendere per prima a Rosebank. Quando arriviamo, le porte si aprono subito. Salto giù, schizzo fuori dalla metropolitana e corro su per la stradina verso la montagna. Le nuvole cedono il passo a una pioggerella sottile. Attraverso Main road e imbocco Woolsack drive. Otto e cinquantacinque. Non riuscirò ad arrivare in tempo. Eppure corro verso il campus, i muscoli delle cosce tesi contro la montagna sempre più ripida.
Nove e sei minuti. Raggiungo il dipartimento di belle arti. La pioggia mi scorre sul viso. Sento gocce di sudore sul seno sotto gli strati di abiti invernali. Aspetto davanti alla porta dell’aula per riprendere fiato, decido che non posso perdere un altro secondo; poi entro nella stanza senza finestre dove tutti sono seduti e prendono appunti mentre Todd scrive alla lavagna: “Allegoria”.
Quasi tutti i posti sono occupati, e sono costretta ad andare davanti per sedermi a un banco che sporge verso la cattedra del tutor.
Todd si volta mentre sto per sedermi. Ti prego, non dire niente, non vedermi, per favore.
“Miss Jones. Ce l’ha fatta. Benvenuta!”.
Un sorrisetto gioca sul suo volto. È difficile dire se mi stia prendendo in giro o se è sinceramente contento che io ce l’abbia fatta. Aspetta mentre mi tolgo il cappotto, tiro fuori i libri dallo zaino e mi sistemo.
“Abbiamo appena cominciato a parlare del rapporto tra il magistrato e la ragazza barbara. Lei ha delle ferite e disabilità che lo intrigano. Stiamo approfondendo i molteplici significati, il senso della sua esistenza. Forse potrebbe offrirci qualche riflessione…?”.
La mia prima riflessione è che il mio cognome è Johns, non Jones. Ma non dico nulla.
Mi asciugo una grossa goccia di pioggia dalla fronte e la vedo planare sulla mia copia di Aspettando i barbari.
Le parole che vorrei pronunciare volano via dalla mia testa come pipistrelli da una grotta al crepuscolo. Non ho nulla da offrire, nessuna idea sui significati.
“La ragazza… è una serva…”.
“Si, è vero. E…?”.
“A lui piace toccarle i piedi… lavarli. Quasi come Gesù, che lavava i piedi delle persone”.
Risposta sbagliata. Lo vedo dalla sua faccia. In un attimo, m’ignora e passa oltre il mio banco.
“Non proprio. Chi può aiutare Miss Jones?”.
La testa mi gira. Non sento le risposte, solo le affermazioni affettate di Todd.
“Giusto! Sì! Eccellente!”.
Cosa non darei per un “eccellente” di Todd.
Ma eccomi seduta, con una bocca piena di denti, incapace di mettere insieme un pensiero elementare. E peggio ancora, non lo capisco. Il libro, la storia, comunque vogliate chiamarla. La narrazione. E non capisco cosa dovrei fare per capirne il senso.
Non capisco perché stiamo leggendo un libro su un vecchio che tocca in quel modo una ragazzina, cominciando dai piedi e poi toccandola dappertutto in altri posti, dove non dovrebbe. Qual è il significato, chiede Todd? Non c’è un significato più nobile. È sbagliato, semplicemente sbagliato. Ma non è la risposta giusta.
Dobbiamo preparare un saggio su questo argomento per la prossima settimana. Anche se non ho ancora cominciato a scriverlo, so già che la mia risposta non sarà quella giusta; non sarà mai quella che guadagnerà un “eccellente” da Todd.
Lo sapevo che sarebbe stata una brutta giornata.
Todd torna davanti alla classe e scrive qualcos’altro alla lavagna. Dovrei appuntarlo nel quaderno, ma è inutile. Sono più persa che mai.
Todd si volta per guardare la classe. È così vicino che potrei toccarlo, ma il suo sguardo passa oltre dirigendosi verso il fondo dell’aula. È come se non ci fossi neanche. Vorrei odiarlo, ma non ci riesco, perché è Todd.
Non importa, perché il fatto che non mi vede mi permette di guardarlo a piacimento. Sono mesi che lo studio, furtivamente. La leggera piega all’infuori dei capelli castani troppo lunghi. Gli occhi verdi, con puntini dorati, incorniciati da occhiali con una semplice montatura in acciaio che lo fanno apparire per quello che è, un uomo amante dei libri. Come me – è questo che mi ha portato qui – l’amore per i libri.
Adoro leggere, ero la migliore lettrice al liceo, divoravo libri molto più difficili del livello della mia classe. E amo scrivere. Per due anni di fila ho preso i voti più alti della scuola in tutti i temi, sia in inglese sia in afrikaans. 80, 85, 90 su cento, ogni volta. E poi arrivo in questa raffinata università e mi hanno restituito il primo compito: 58 su cento.
Ho pensato a un errore. Ho aspettato la fine delle lezioni e ho chiesto alla prof.
Lei ha preso il compito, lo ha guardato in meno di trenta secondi e si è messa a ridere. Non una risata cattiva, ma compassionevole. Una risata che, se fosse stata la nonna a farla, sarebbe stata seguita da “ah, vergogna!”.
Non era uno sbaglio, mi ha informato la professoressa, ma se volevo migliorare i miei voti dovevo andare a parlare con il tutor che aveva valutato il mio compito. Erano i tutor a dare i voti, lei non avrebbe potuto aiutarmi.
Era la prima volta che parlavo da sola con Todd. Lui mi aveva invitato nel suo ufficio. Non gli ero mai stata così vicino, tanto vicino da vedere i peli della barba che gli punteggiavano il viso.
Lui aveva letto il mio compito.
Io lo guardavo, le lunghe dita che scorrevano la pagina, le unghie accuratamente limate. Mani pulite. Si vedeva che non lavorava all’aperto o con le macchine, come zio Keith, o i ragazzi agli angoli di Bellville south. Mi chiedevo quale sensazione mi avrebbe dato la sua mano contro la mia, se avesse tenuto le mie dita gentilmente e le avesse portate alle labbra. Avevo lasciato che i miei pensieri indugiassero su tutto questo mentre leggeva. E poi mi ero vergognata, mi ero sentita sporca.
Lui aveva letto con attenzione e con cura.
“Eh sì, capita spesso che gli studenti del primo anno abbiano una specie di trauma quando valutiamo i loro lavori per la prima volta. Qui non è come al liceo. Scriviamo in modo diverso. È più analisi che racconto, cioè quello che la maggior parte di voi è abituata a fare a scuola”.
E cosa significava, mi chiedevo.
“E allora come posso migliorare la mia scrittura?”.
“Di fatto è solo questione di pratica. Ha letto i miei commenti ai margini? Ha delle domande?”.
Non li avevo letti. La vergogna mi aveva risucchiato l’aria dai polmoni. Avrei dovuto almeno arrivare preparata con qualche domanda, per non fargli perdere tempo.
“La cosa migliore da fare è continuare a lavorarci. Ecco, vorrei darle qualche esempio di una buona scrittura. Abbiamo qualche modello di saggi degli anni scorsi per studenti come lei”.
Era andato verso uno schedario, aveva tirato fuori delle pagine e me le aveva date.
“Le legga, e si farà un’idea dello stile e del tipo di lettura profonda e di analisi che deve fare”.
Lettura profonda. Cos’era? La domanda rimase non formulata.
Avevo annuito.
“Altre domande?”.
No, nessuna. Tanto non riuscivo a pensare normalmente in presenza di Todd. Le domande sarebbero venute un quarto d’ora dopo, quando ero già uscita dal suo ufficio, sul treno per casa.
“Non si preoccupi. Lei è una studente sveglia. Tenga duro e ne verrà a capo”.
Aveva fatto un cenno verso la porta. Era ora di andare.
Io l’avevo fissato. Sorrideva. Un solco leggero gli fendeva il mento.
Avrei voluto abbracciarlo, ma mi ero limitata a dire: “Grazie, grazie tante”. E me n’ero andata.
Quindi ero sveglia. Todd pensava che fossi sveglia. Non ero riuscita a togliermi il sorriso dalla faccia per un’ora.
Questo era successo mesi fa. I miei voti avevano lentamente superato quota 60, ma non erano mai andati oltre 65. Forse era il massimo che una studente come me poteva aspettarsi.
Lo sguardo di Todd all’inizio era pieno di considerazione, e poi mi passava attraverso. Non ero stata all’altezza del mio potenziale. Il mio acume si era rifiutato di crescere fino a rendermi brillante.
E ora praticamente avevo detto la cosa più stupida che si potesse dire in questo campus, infilando Gesù in una discussione.
Ben mi sta. Avrei dovuto semplicemente andare dove vanno le persone come me.
Vago per tutto il resto della giornata da un’aula all’altra, da un laboratorio a un altro. Mangio i miei panini sui Jammie steps, affacciandomi sull’immensità delle Cape flats. Dalle pareti coperte di edera, cerco d’individuare i luoghi dove sono passata sulla mappa vivente che ho ai miei piedi. Non riesco mai a trovare Bellville.
E poi c’è il prossimo laboratorio. Il mercoledì è la giornata più pesante. Ho organizzato i corsi in modo di passare alcune mattine alla settimana all’università, con un giorno pieno il mercoledì, lasciandomi i giovedì liberi.
Il giovedì incombe minaccioso su di me. Cerco di spingerlo in fondo ai miei pensieri, ma riesce a guadagnarsi spazio man mano che la giornata volge al termine. Sul treno verso casa trovo un sedile vuoto, mi spengo e sonnecchio fino a Bellville.
È buio quando entro nella nostra casetta a due piani. Ripulisco con il pane la zuppa di piselli preparata dalla nonna; in questa casa mangiamo tutti da soli, a qualunque ora torniamo. Zio Keith arriva un’ora dopo e io lavo i piatti quando finisce di cenare.
Dovrei leggere, o lavorare al mio compito, ma la tv risuona in tutta la casa. Prima di potermi preparare il letto sul divano devo aspettare che zio Keith spenga la tv, e che lui e la nonna salgano di sopra a dormire. Seduta al tavolo della cucina ascolto il respiro di zio Keith che s’indurisce in un gentile russare davanti allo schermo. Sento crescermi dentro l’irritazione: fa così ogni sera. Perché non va a dormire in camera sua, in modo che io possa combinare qualcosa?
La nonna è di sopra, già a letto. Salgo a darle la buona notte, e per un attimo vorrei essere la bambina che s’infila nel suo letto e si addormenta contro la sua schiena. Ma sono grande, una signorina, come le piace chiamarmi. Le do un bacio sulla fronte e mormoro buonanotte.
La mia mente si calma quando comincio a sfregare il pavimento con piccoli movimenti circolari. Ed è in quel momento che sento la voce. Rimbalza giù per le scale un attimo prima che lui scenda a salti, senza camicia
Zio Keith sale le scale e lo sento nel bagno. Un dolce “’notte” fluttua nella stanza della nonna mentre passa, chiudendo la porta della sua camera.
Di sotto, il salotto è finalmente tutto per me. Mi crogiolo nell’oscurità, nella solitudine; immagino di mettere un po’ di jazz e versarmi un bicchiere di vino. Magari un ragazzo come Todd seduto accanto a me, par parlare di cose raffinate, cose colte.
Rido di me stessa, smetto di fantasticare e mi preparo per la notte. Dovrei leggere, ma sono troppo stanca, e domani mi aspetta un’altra levataccia. Meglio riposare.
Giovedì mattina, quattro e mezzo, la nonna mi guarda dall’alto, dandomi dei colpetti sulla spalla.
“’Giorno nonna”, è tutto quello che riesco a farfugliare.
Ci prepariamo in silenzio, trascinandoci nella nostra collaudata routine mattutina.
Alle cinque e mezzo siamo già sul solito binario a Bellville station. Stamattina il treno è puntuale. Troviamo due posti vicini, possiamo allungare le gambe. Quando il treno esce al rallentatore dalla stazione, la nonna prende la borsa e tira fuori un pezzo di carta spiegazzato. Mi mostra un indirizzo a Claremont.
Una tenaglia mi stringe il cuore. È troppo vicino alla mia solita vita. Normalmente il nostro lavoro del giovedì è in un appartamento a Sea Point. La nonna ha omesso di dirmi che oggi saremmo andate in un posto nuovo.
“Cos’è successo ai Gold di Sea Point, nonna?”.
“Sono andati in vacanza. E mi hanno chiesto di fare qualche lavoretto a casa di un’amica della signora Gold. È solo per due settimane, mentre la loro cameriera è via”.
Qualche mese fa, proprio quando ho cominciato l’università, l’artrite della nonna è peggiorata. Non esiste la pensione per una donna delle pulizie, e anche se avevo vinto una borsa di studio per coprire la retta del primo anno, la vita universitaria aveva portato con sé molte spese impreviste: mezzi pubblici, libri, pasti, cartoleria.
Non indossavo più l’uniforme scolastica, ma ovviamente mi servivano dei vestiti decenti. Chi vuole presentarsi come se venisse dalla boscaglia? Le spese si erano sommate rapidamente. La nonna non era certo in condizioni di prendersi una pausa. Non poteva perdere il lavoro, e così il giovedì andavo con lei a casa del dottor Gold e di sua moglie per dare una mano con i lavori più pesanti. I Gold mi conoscevano e non avevano niente in contrario. Ero praticamente cresciuta sotto i loro occhi, ci ricordavano spesso, e si fidavano di nonna e di me. L’accordo andava abbastanza bene a tutti.
Ma ora ci stavamo spostando a Claremont. Ad appena tre fermate da Rosebank. A tre fermate dalla mia università. Avremmo dovuto seguire lo stesso percorso che faccio per andare al campus, cambiando a Salt River e prendendo la linea per Simon’s Town. Sarebbe stato un miracolo non farsi vedere sul treno. E se qualcuno si fosse avvicinato e avesse cominciato a fare domande?
E non è l’unico problema. Molti studenti vivono a Claremont. E se qualcuno che conosco mi avesse visto in abiti da lavoro?
Cerco di farmi passare il panico. Saremo dentro una casa. Probabilmente non ci sarà nessuno, come nell’appartamento dei Gold. A Sea Point, il portiere che vive sul retro del palazzo ci fa entrare e poi alla fine della giornata uscire. Con ogni probabilità succederà così anche a Claremont. Andrà tutto bene, non mi vedrà nessuno.
Il giovedì incombe minaccioso su di me. Cerco di spingerlo in fondo ai miei pensieri, ma riesce a guadagnarsi spazio man mano che la giornata volge al termine. Sul treno verso casa trovo un sedile vuoto, mi spengo e sonnecchio fino a Bellville
Cambiamo a Salt River e saliamo sul treno per Claremont. Prego in silenzio perché nessuno degli studenti che frequentano i miei stessi corsi o con cui trascorro le pause tra le lezioni siano sul treno. Comunque per loro è troppo presto.
La nonna si mette nell’unico posto libero, mentre io afferro la maniglia appesa al soffitto. Chiudo gli occhi nell’eventualità che nella carrozza ci sia qualcuno che conosco; se non li vedo, forse mi lasceranno in pace.
Penso a Theresa e Meghan, le compagne dell’università che ho avvicinato con tanta fatica. C’è voluto parecchio tempo per trovare delle amicizie perché sono l’unica del mio liceo a frequentare questa università. Gli altri studenti avevano già dei gruppi in cui inserirsi.
Theresa con le sue Doc Martens, i suoi Levi’s e la macchina nuova, regalo per i suoi diciotto anni. Cosa penserebbe se frugasse nel mio zaino del giovedì e ci trovasse la tuta da lavoro e la fascia per i capelli? Le ragazze di Heathfield e Fairways non accettano facilmente quelle di Bellville, che per loro è praticamente la boscaglia. Ho lavorato sodo per piacergli, e non sono neanche sicura di esserci riuscita. A volte mi permettono di sedere insieme a loro, tutto qui. Pensa che vergogna se ci vedessero – nonna con l’aria della domestica che è, e io la sua aiutante – e scoprissero la mia vita segreta.
A Claremont scendiamo e ci uniamo alla massa dei pedoni. La nonna è già stata a questo indirizzo insieme alla signora Gold, e arriviamo in pochi minuti. Un muro di due metri nasconde la facciata della casa. Se la nonna è nervosa all’idea di conoscere nuovi bianchi, non lo dà a vedere. Preme il pulsante al cancello. Una voce femminile cinguetta un saluto al citofono.
“Chi è?”.
“È Nellie Johns,” risponde la nonna.
Il cancello si apre con un ronzio ed entriamo, facendoci strada verso la porta d’ingresso su un sentiero di ciottoli che attraversa il prato perfettamente curato. La brezza increspa la superficie calma di un’enorme piscina. Potrei starmene seduta accanto a quella piscina tutto il giorno leggendo un buon libro. Il semplice fatto di entrare in questo giardino con i suoi alberi accoglienti e le aiuole rigogliose ti apre un po’ l’anima.
Una donna dai capelli lunghi si staglia nel portone aperto. Ci avviciniamo, io mi tengo stretta dietro alla nonna, che ha drizzato la schiena per fare una prima buona impressione. Non puoi mai cambiare quello che la gente pensa di te la prima volta che ti vede, mi ha ammonito molte volte.
“Buongiorno, signora Wessels”, la voce della nonna ha un suono cerimonioso, energico.
“Salve, Nellie”, risponde la donna.
Da vicino vedo che è bionda, i capelli incorniciano un bellissimo volto dagli occhi verdi. Alta e aggraziata, ha il corpo avvolto in un lungo abito morbido che ne addolcisce gli angoli quando si muove. Il suo fisico è uno studio di contrasti: la pelle intorno agli occhi e alle labbra è attraversata da un incrocio di rughe sottili, mentre il corpo ha la leggerezza di una persona molto più giovane. Ha una delicata peluria sulle guance che mi ricorda i pulcini nel cortile dei nostri vicini. Come loro, sembra fragile.
Accenna un sorriso tirato.
“Chi è quella?”, chiede, e fa un cenno verso di me.
“È mia nipote, signora. Pensavo che la signora Gold gliel’avesse detto… Viene sempre con me. La vecchiaia, sa”, la nonna ride cercando di sminuire la mia presenza.
Sono mesi che lo studio, furtivamente. La leggera piega all’infuori dei capelli castani troppo lunghi. Gli occhi verdi, con puntini dorati, incorniciati da occhiali con una semplice montatura in acciaio che lo fanno apparire per quello che è
La donna bionda annuisce, senza rispondere
alla risata.
“Venite dentro. Potete cambiarvi nel bagno degli ospiti e lasciare le vostre cose nel patio. Quando siete pronte, venite in cucina e vi dirò cosa c’è da fare”.
Obbediamo alle istruzioni e ci ritroviamo in cucina, tutt’e due in salopette rosa, io con una fascia in testa per disciplinare i miei capelli ribelli, lunghi fino alle spalle. La signora Wessels è appoggiata a un piano da lavoro e sorseggia una tazza di caffè nero. Non ci offre niente. Di solito quando arriviamo dai Gold beviamo una tazza di tè al latte con due zollette di zucchero e dei biscotti che vengono da una scorta speciale, tenuta da parte per noi. Qui non c’è questo lusso.
“Per favore, cominciate dalla cucina e poi passate alla zona pranzo e alla sala”. Fa un gesto con la mano libera in direzione dell’enorme soggiorno pieno di soffici divani bianchi.
“Il pavimento della cucina dev’essere sfregato con la spazzola, non lavato. Il secchio è quello. Spolverate e lucidate tutto, poi passate l’aspirapolvere. Quando avete finito, potete salire di sopra e spolverare e passare l’aspirapolvere nelle stanze da letto. Lasciate tutti i bagni per ultimi. Sono tre. E poi il bagno degli ospiti. Se avete bisogno dei servizi, ce n’è uno fuori, vicino al patio. Mezz’ora di pausa pranzo alle dodici. Tutto chiaro?”.
“Sì, signora”, cantileniamo all’unisono.
La signora Wessels annuisce con approvazione, poi volteggia nel salotto, seguita dall’aroma del caffè fumante.
C’è una montagna di piatti ammucchiata nel lavello, e la nonna comincia da lì. Conosco il suo metodo: come prima cosa lavare i piatti, asciugarli e metterli via. Strofinare tutte le superfici, poi spazzare e lavare il pavimento.
Lavoriamo senza parlare, io asciugo con la stessa rapidità con cui lei deposita le stoviglie pulite e bagnate nello scolapiatti.
Vogliamo andarcene da qui il prima possibile; non ci servono parole per capire che l’altra la pensa allo stesso modo.
In piedi accanto alla nonna, guardo la sommità della sua testa e la linea a zigzag dei capelli non lisciati. Combatto l’impulso di baciarla sul capo, come faceva lei quando ero più piccola.
Un uomo, in completo e cravatta, scende la scala sul retro della cucina e passa senza guardarci. È come se fossimo invisibili. Si avvicina alla signora Wessels, le tocca una spalla e chiede, con un leggero cenno verso di noi: “E questo cos’è?”.
“La domestica ha portato una ragazzina con sé. Non lo sapevo. Sue non mi aveva detto niente”.
“Una ragazzina? Quella non è una ragazzina. E se fosse una ladra? Incredibile che tu non sappia chi viene a casa nostra. Non hai fatto qualche controllo?”.
Non si rendono conto di quanto siamo vicine? Non sanno che possiamo sentire ogni parola?
Mi tengo stretta alla maniglia di plastica appesa alla sbarra che corre lungo il soffitto del vagone. Le donne ondeggiano intorno e contro di me, i nostri corpi sobbalzano
Lancio un’occhiata alla nonna. Lei mi fulmina con lo sguardo severo, un ammonimento a non reagire. Non lo farei. Sono troppo una brava ragazza, ho troppa paura di questa gente che potrebbe fare tutto quello che vuole con noi, con me. La conversazione in salotto continua.
“Ma Sue ha detto… Sono anni che va da loro!”.
“Dio, sei così ingenua!”.
La nonna continua a lavare mentre io asciugo. Nella mia testa si alza un velo. Sento un pugno allo stomaco rendendomi conto che in questa casa, e in luoghi simili, non saremo mai viste. Siamo funzionali. Come le mensole per i soprammobili, o gli armadietti per il vino, siamo qui per svolgere un lavoro. Esistiamo allo scopo di rendergli la vita facile, di mettere ordine nella loro confusione. Per loro siamo sorde come le ciotole dove ripongono le chiavi dell’auto, invisibili come le mattonelle sotto i loro piedi.
Dandoci le spalle, la donna guarda il marito andarsene via in macchina. Continua a sorseggiare graziosamente il suo caffè. Sembra impassibile. Una parte di me vorrebbe vedere la sua espressione, un’altra è grata di non doverla guardare in faccia in questo particolare momento.
Riempio il secchio di acqua calda, aggiungo un po’ di sapone liquido e mescolo per fare la schiuma. Fingo di preparare il seepsop, l’acqua saponata con cui mi piaceva giocare da bambina. Se riesco a trasformarlo in un gioco, forse il tempo passerà prima.
Mi metto a quattro zampe, le ginocchia protette da un asciugamano logoro, e immergo la spazzola nella schiuma. La mia mente si calma quando comincio a sfregare il pavimento con piccoli movimenti circolari.
Ed è in quel momento che sento la voce. Rimbalza giù per le scale un attimo prima che lui scenda a salti, senza camicia.
“Mamma! Il mio dolcevita grigio?”.
È troppo tardi per voltarsi. La voce mi ha colto di sorpresa e d’istinto alzo lo sguardo, dritto negli occhi di Todd.
Restiamo entrambi impietriti. Lui rallenta la corsa e scende con cautela gli ultimi gradini, ricambiando il mio sguardo.
Poi succede, la manovra ben collaudata dell’aula del laboratorio. Il suo sguardo mi attraversa e procede oltre.
“Non riesco a trovarlo da nessuna parte! Volevo mettermi quel maglione oggi alla presentazione”.
“Forse non avresti dovuto lasciarlo sul pavimento, allora”.
“Mammaaa!”. La sua voce forte e piatta s’incrina in un lamento. Sembra un bimbetto sull’orlo di fare i capricci.
Cerco di trovare un senso nei colori usati per i diversi paragrafi o anche per singole parole, ma le pagine non rivelano niente. Non c’è uno schema e i suoi appunti scarabocchiati ai margini sono illeggibili. Se devo avere una comprensione più profonda del romanzo, non la troverò qui
Io piego il capo e mi rimetto a strofinare. La nausea mi sale fino alla gola, riempiendomi la bocca di saliva salata, ingoio e continuo a strofinare.
Se mi ha riconosciuto, non lo lascia vedere. O forse ha finto di non conoscermi come gesto di cortesia?
Qualunque sia la ragione di questo non riconoscimento, gliene sono grata. Pensa dovergli spiegare cosa sto facendo qui, strofinando il suo pavimento, e che la domestica è mia nonna. Pensa al dolore che proverebbe la nonna nell’assistere all’umiliazione che avrei inevitabilmente subìto durante questa conversazione.
Dopo aver bisticciato con la madre, Todd saltella di nuovo su per le scale. Quando scende, qualche minuto dopo, ho già tolto metà della schiuma. Le sue suole di gomma lasciano una bizzarra traccia geometrica sul mio pavimento appena lavato. Rimango carponi e striscio dietro il percorso lasciato dalle sue impronte, ripulendo ogni segno con lo straccio.
Dopo la cucina ci trasferiamo nella sala, che la signora Wessels lascia libera appena entriamo. È un lavoro rapido; la casa ha una domestica che viene regolarmente, e per spolverare, lucidare e passare l’aspirapolvere basta meno di mezz’ora.
Passiamo al piano di sopra, dove la nonna dice che dobbiamo dividerci per fare le stanze da letto. A me assegna quella di Todd. Vorrei protestare e chiederle di fare a cambio, ma come spiegare senza tradire il mio segreto?
Mi sembra di commettere una violazione, di mettere piede in uno spazio sacro che dovrebbe essere assolutamente interdetto. Diverse paia di boxer, un asciugamano bagnato e dei calzini sono sparsi sulla moquette. Il letto matrimoniale è sfatto, le lenzuola sono umide di una sostanza appiccicosa che scopro quando tiro via le coperte. Dovrei cambiare le lenzuola, almeno, ma non ci hanno dato la biancheria di ricambio, perciò rifaccio il letto meglio che posso dopo aver tamponato le lenzuola con carta da cucina.
Raccolgo i vestiti e li deposito in un cesto di vimini. Mi fermo per guardare la libreria – ben fornita, con tutti i classici. C’è una notevole sezione di letteratura sudafricana in ordine alfabetico.
Sulla scrivania trovo un assortimento di blocchi di appunti, penne e mucchi di libri. Una copia con le orecchie di Aspettando i barbari è aperta a faccia in giù. Come un investigatore forense lo volto con la massima cura, prendendo nota della pagina esatta in cui Todd ha ritenuto opportuno interrompere la lettura. Pagina 114.
Quasi tutte le righe delle due pagine sono sottolineate con evidenziatori di diversi colori. Cerco di trovare un senso nei colori usati per i diversi paragrafi o anche per singole parole, ma le pagine non rivelano niente. Non c’è uno schema e i suoi appunti scarabocchiati ai margini sono illeggibili. Se devo avere una comprensione più profonda del romanzo, non la troverò qui.
Tolgo tutto dalla scrivania, la lavo, la asciugo e rimetto gli oggetti che ho spostato in pile ordinate. Il libro lo posiziono a faccia in giù, aperto a pagina 114, come l’avevo trovato. Stasera andrò alla stessa pagina della mia copia, senza appunti ai margini o brani evidenziati per poterla rivendere a fine semestre, e cercherò altre chiavi per capire. (Non ne troverò.)
Intorno alle due e mezzo abbiamo finito il lavoro. Ci rimettiamo gli abiti normali e io mi tolgo la fascia dai capelli. Ti prego, Dio, non far tornare a casa Todd mentre stiamo andando via. Le implorazioni sono diventate i miei pensieri da sveglia.
La mia preghiera è esaudita. La nonna va via con quattro banconote da 20 rand, soddisfatta dell’incasso della giornata. Quando ce ne andiamo, ci viene detto che non sarà necessario tornare. Con la mia compagna di lavoro fingo di essere delusa.
“Non preoccuparti, nonna, troveremo qualcos’altro. Dici sempre che tutto succede per un motivo. Forse dovremmo credere che ci sia un buon motivo anche per questo”.
“Hai ragione, bambina mia”, risponde. “Questa non è una casa felice. A volte è difficile lavorare in un posto così. Si sfogano con te”.
Nel viaggio in treno verso casa ciascuna è assorta nei suoi pensieri. Quando arriviamo a Bellville, l’umore della nonna è migliorato. Per cena ci vizia con pesce e patatine, che mangiamo insieme.
Il lunedì le divinità dei treni mi sorridono e alle otto e mezzo sono all’università. Mi fa piacere; avrò bisogno di tutto il mio autocontrollo per affrontare Todd. Sarà diverso? Ci sarà un qualche guizzo o uno sguardo negli occhi che tradisca il nostro segreto? Ma abbiamo davvero un segreto, o devo sopportarlo solo io?
Il mio autocontrollo è aiutato dal compito che ho nello zaino. Venerdì e sabato, dopo il lavoro di domestica, sono andata alla biblioteca di Bellville, dove vado a studiare quando a casa c’è troppa gente. Questa volta non mi sono limitata a usare i tavoli e le sedie. Ho chiesto aiuto e ho letto quello che altri avevano scritto su Aspettando i barbari, ho preso appunti dai libri su come impostare ed esporre un’argomentazione, ho riletto i modelli di saggi che Todd mi aveva dato. Quando me ne sono andata all’una di sabato, perché la biblioteca chiudeva per il fine settimana, avevo una bozza di cui ero soddisfatta. Ero tornata a casa e avevo scritto fino a tarda notte al tavolo della cucina per terminare il mio saggio. L’avevo intitolato: “L’opinione di un servo: il punto di vista della ragazza in Aspettando i barbari”.
Sono già seduta quando Todd entra in classe e lascia cadere un mucchio di appunti e una copia del romanzo sulla cattedra. Non saluta e non cerca il contatto visivo, ma si avvicina alla lavagna e butta giù un elenco puntato.
Alle nove in punto si volta, si pulisce le mani sporche di gesso sui pantaloni e ci augura buongiorno.
“Oggi proseguiamo con l’idea di allegoria nel romanzo seminale di Coetzee”.
Guarda nella mia direzione. I nostri occhi s’incontrano.
Aspetto quel delizioso colpo al plesso solare che provo inevitabilmente quando lo guardo, ma non arriva. Sento… Non sento niente.
Mi sorride.
“Miss Jones…”.
Sono decisa come una freccia nel pronunciare ogni parola. Agile e sicura, la mia voce sorprende anche me.
“È Johns, Todd.
Non Jones.
Miss Johns”. ◆
Barbara Boswell è nata a Città del Capo, in Sudafrica, dove insegna all’università. Nel 2018 con il romanzo Grace: a novel ha vinto il premio di scrittura creativa per esordienti assegnato dall’università di Johannesburg. Il racconto di queste pagine è uscito sulla Johannesburg Review of Books con il titolo Miss Johns. La traduzione è di Maria Giuseppina Cavallo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati