Capita di sentire Due vite di Marco Mengoni rinfrangersi in molti angoli di questa estate, dai piccoli altoparlanti sotto gli ombrelloni alle ragazze che fanno capannello intorno al telefonino con il vivavoce per cantarla insieme sull’onda della stessa malinconia auto-assolutoria e leggermente rivendicativa. E capita di arrivare a considerarla uno dei tanti emblemi della canzone italiana attuale: coinvolgente, efficace e senza contesto. Molto si discute nell’ambito della narrativa contemporanea sul rapporto tra uso dell’io e dell’invenzione, tra la consunzione del dolore privato e la capacità di immaginarsi altri mondi che esulano dalla famiglia o dalle contingenze del vivere quotidiano. Ma se ne parla di meno rispetto al cantautorato, che è invaso di relazioni a due o di poliamori fluidi che non segnalano più un cambiamento sociale, semmai lo confermano in una dimensione ludica, rimestandosi in un glorioso ambito personale.
Eppure anche nel modo di scrivere canzoni si sente una risacca. Non è solo questione di che tipo di romanzo può vincere il premio Strega, e come sempre non è detto che l’emergere di tempi inquieti dal punto di vista politico debba generare testi di assalto. Non è più così da anni, ma è interessante notare come la detrizione di diritti come l’aborto o il salario minimo non riescano a produrre versi che vanno al di là dell’ammiccamento pop di scuola Fedez, programmato per scadere, in cui c’è sfiducia non solo sul fatto che la parola possa fare qualcosa, ma che ce la si possa ricordare al di là di una brevissima stagione. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati