Francesca Bono per me è una musicista di una serietà commovente. Saranno i miei quarant’anni arrivati da qualche mese, o il modo in cui porto avanti una riflessione su creatività, soggettività femminile e quell’ostinazione che a un certo punto vuole trascendere il riconoscimento attivo nel presente e si pone la questione di come durare nel tempo. Come lavorare, come durare, anche da sola, se da sola comunque non si è: Bono lavora a tanti progetti contemporaneamente, circondata da una comunità di collaboratori familiari (per il suo primo album solista, Crumpled canvas, ha scelto la coproduzione di Mick Harvey), ma la sua è anzitutto una vita di musiche possibili.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Solo alcune si sviluppano, ma non sono le uniche che esistono: nel suo immaginario c’è sempre qualcosa che accade, anche dietro le quinte. Nel suo lavoro strumentale e testuale si sente la vibrazione di tanti sogni ancora senza una forma: la canzone pubblicata non è quella che ha vinto per superiorità qualitativa, ma quella che aiuta i brani che verranno in seguito. È una logica genuinamente romantica e orizzontale. Nell’intonazione della musicista di Bologna sento quell’inglese che mi è più caro per ragioni anagrafiche e affettive, l’inglese new wave, stentato e magico che poi ha trovato una gravità maggiore nel folklore punk di PJ Harvey. Qui siamo all’attimo prima, ed è un attimo molto personale, come s’intuisce in brani come Raging fire e Fracture, anche se è nella stellare Velvet flickering heart che Bono trova la sua luce più malinconica e piena.◆

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati