C’è un modo di dire in Turchia: “buttarla in politica”. Come se la politica fosse una cosa separata dalla società, indipendente dalle cause e dalle conseguenze del modo in cui viviamo. “Non buttarla in politica” significa “non è compito nostro rendere conto della realtà”. Impedire ai cittadini di difendere i propri interessi significa proteggere la superiorità degli interessi personali, di classe, di rango.
Per comprendere le dimensioni del più grande disastro degli ultimi vent’anni bisogna guardare prima di tutto al disastro ventennale. Siamo di fronte a un regime che non dà importanza ad altro che al proprio profitto, che non ha altri piani a parte salvarsi nel momento del pericolo, che non vede neppure il bisogno di un simile piano, che non esita a manovrare per trovare qualche vantaggio nella tragedia. Non dobbiamo proteggerci solo dal terremoto, ma anche da questo regime.
Non si può impedire un terremoto, ma si possono limitare i danni di un disastro ampiamente annunciato. Basta volerlo
Da vent’anni la Turchia è amministrata secondo il principio “quel che conta è il profitto, costi quel che costi”. In questo periodo avremmo dovuto prepararci a nuovi terremoti dopo quello di İzmit, che nel 1999 uccise 18mila persone. Invece abbiamo consegnato il paese a un appaltatore che lo ha distrutto e ha costruito un mostro di cemento. I faccendieri criminali degli anni precedenti sono dei dilettanti in confronto.
Qualcuno penserà che è inappropriato dire queste cose dopo una catastrofe simile. Invece è proprio questo il momento. Un intero paese si è mobilitato e cerca di aiutare le vittime. Gli aerei non possono atterrare negli aeroporti costruiti su terreni paludosi, le strade appaltate con criteri politici si sbriciolano come biscotti.
Quelli che hanno mandato le forze armate turche a invadere la Siria, e nominato prefetti nei territori occupati come fossero sultani ottomani, esitano a inviare nelle zone terremotate l’esercito pagato con le tasse dei cittadini. E i religiosi con le Mercedes, sempre finanziati dalle tasse, recitano orazioni funebri per il paese. Anche il ministro degli interni, che si precipita davanti alle telecamere appena in Siria si muove una foglia, non si è fatto vedere. Quando le macerie saranno rimosse, probabilmente manderà alle vittime le forze speciali e le camionette della polizia.
Arroganza e indifferenza
Per ogni evenienza, il potere ha messo in piedi una campagna di pubbliche relazioni. Temendo che qualcosa filtrasse dalla melma dei mezzi d’informazione, alcuni rappresentanti del Partito giustizia e sviluppo (Akp) sono stati mandati sul campo a stuccare le crepe. Dovevano solo pronunciare qualche discorso di circostanza e dare almeno un’impressione di umanità, ma non sono riusciti a fare nemmeno questo. A emergere sono l’arroganza e l’indifferenza di chi non riesce a guardare in faccia il suo popolo e non sa neanche offrire una parola di conforto senza guardare alla mappa dei risultati delle elezioni amministrative.
Chi è abbastanza vecchio da ricordare il terremoto di İzmit sa cosa sia uno stato che non riesce ad aiutare le vittime di una calamità naturale. Ma uno stato che ritiene umiliante aiutare il proprio popolo, che lo considera una minaccia alla propria esistenza, è a un livello molto più avanzato di degenerazione.
In realtà il regime del partito-stato non ha torto, perché come in ogni crimine in questo paese ci sono le sue impronte digitali dappertutto. Oggi stiamo vivendo le conseguenze di una calamità ventennale che dopo il terremoto del 1999 ha fatto l’esatto contrario di ciò che chiedevano gli scienziati, e lo ha fatto di proposito, per creare un nuovo capitalismo asservito; che è stata accecata dall’avidità e dalla partigianeria; e che ha fatto dell’attacco all’interesse pubblico la base della sua strategia.
Da vent’anni l’Akp governa il paese secondo il motto “dopo di noi il diluvio”. Non si è mai preoccupato di fare l’interesse pubblico, e non lo farà mai.
Riconoscerlo non significa “buttarla in politica”. Al contrario, vuol dire intervenire nella politica già esistente in modo da evitare altre distruzioni. Rendere nuovamente pubblico l’interesse pubblico usurpato. Dire: “Dovete fare bene il vostro lavoro o ne pagherete le conseguenze”.
Nessuno si lasci ingannare. Anche i morti del terremoto sono politici. Non si può impedire un terremoto, ma si possono limitare i danni di un disastro ampiamente annunciato. Basta volerlo.
Indicare chi non ha questa intenzione non significa “buttarla in politica” ma cercare di tenere i piromani che da vent’anni girano per il paese con le taniche di benzina lontano dal luogo del prossimo incendio. ◆ ga
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Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati