L a Cina ha commesso degli errori riaprendo dopo tre anni di lockdown. La sorpresa per il cambio di linea è stata superata solo dagli interrogativi sul perché una politica così costosa e insostenibile sia stata portata avanti per tanto tempo. Economisti e storici impiegheranno anni per rispondere alle tre grandi domande sulla (cattiva) gestione della pandemia di covid-19 in Cina.
Il primo interrogativo riguarda i costi economici e sociali della politica zero covid. È valsa la pena sostenerli? Le stime più attendibili dicono che almeno un milione di persone moriranno di covid nei prossimi tre mesi.
Dovrebbero essere presi in considerazione anche i costi sanitari diretti, soprattutto i decessi provocati da malattie non curate a causa delle restrizioni; la produzione persa durante le chiusure, e i danni provocati alla vita e alla salute mentale delle persone dai prolungati lockdown e delle quarantene, talvolta arbitrarie, imposte a milioni di persone.
Il secondo interrogativo è perché una politica così miope e insostenibile sia stata applicata così a lungo e con tale fervore ideologico. Che ne è stato del tanto osannato pragmatismo? Dell’approccio scientifico e della lungimiranza che hanno caratterizzato la Repubblica popolare negli ultimi quarant’anni di riforme e aperture? Quando all’inizio del 2021 sono arrivati dei vaccini efficaci, la politica zero covid è diventata l’antitesi di queste virtù di governo.
La politica zero covid è stata così ideologizzata e perseguita in modo talmente dogmatico che nessun settore dell’esteso sistema amministrativo cinese ha avuto i mezzi, o tanto meno il permesso, di prepararsi al passaggio verso la fase di convivenza con il virus. L’incapacità di adattarsi a una transizione non è stata dettata solo da un deficit di cognizione o immaginazione: è stata soprattutto una mancanza dal punto di vista della comunicazione politica.
Per tre anni la macchina della propaganda cinese è entrata in uno stato di arrogante iperattività per enfatizzare i pericoli del covid e denigrare gli altri paesi (soprattutto quelli occidentali) che avevano scelto di convivere con il virus, usando l’iniziale successo della Cina per dimostrare la superiorità morale di Pechino rispetto alle democrazie liberali.
Ma l’arroganza si è rivelata un’arma a doppio taglio e oggi l’opinione pubblica è scettica e diffidente. Oltre ad aver alimentato una fiducia eccessiva nella politica zero covid, la propaganda potrebbe aver dissuaso molti cinesi anziani dal vaccinarsi.
La terza domanda a cui gli economisti del futuro dovranno rispondere è perché nel 2023 non ci sarà per la Cina la ripresa economica ampiamente prevista.
I consumi interni saliranno, ma saranno frenati da due fattori: la crisi del settore immobiliare, dov’è investito il 70 per cento della ricchezza delle famiglie cinesi, e la debole crescita dei redditi provocata da un alto tasso di disoccupazione giovanile e dalla perdita di posti di lavoro.
Le autorità cinesi cercheranno di sostenere il settore immobiliare in difficoltà promuovendo politiche monetarie espansive, ma saranno limitate dal più ampio obiettivo politico della “prosperità comune” e dal principio secondo cui “le case servono per viverci, non per speculare”. La più grande preoccupazione è se e quanto rapidamente le ferite inferte a gran parte delle filiere produttive potranno rimarginarsi. La volubilità con cui le autorità hanno imposto i lockdown hanno reso molti investitori stranieri più inclini all’idea di lasciare la Cina, anche se questo significa dover sostenere costi più alti. E non è detto che la riapertura del paese riuscirà a invertire la tendenza. ◆ gim
Donald Low è direttore dell’Institute for emerging market studies dell’università di scienza e tecnologia di Hong Kong.
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati