La situazione in Sudan continua a peggiorare, e gli appelli alla calma provenienti da tutto il mondo non sembrano ottenere gli effetti desiderati. Gli scontri armati in corso dal 15 aprile hanno già causato quasi trecento morti. La capitale Khartoum si sveglia con il rombo dei bombardamenti aerei delle forze dell’aeronautica, a cui rispondono i colpi delle armi pesanti sparati dai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). “Ieri sembrava il suono della pioggia, oggi quello dei tuoni”, ha scritto su Twitter la ricercatrice sudanese Nisrin Elamin.
Gli abitanti della capitale, rinchiusi in case sprovviste di rifugi antiaerei, si sono ormai abituati ai blackout prolungati. Vivono un incubo a occhi aperti di cui da mesi temevano l’arrivo, ma che è comunque terribile per la sua intensità. “Sapevamo che sarebbe successo. Ma aver ragione non serve a molto quando una bomba esplode a due passi da casa tua”, commenta Kholood Khair, fondatrice del gruppo di esperti Confluence advisory, con sede a Khartoum.
Alla testa di un impero
Da mesi il generale Abdel Fattah al Burhan e Mohammad Hamdan Dagalo, detto “Hemetti”, conducono una guerra nascosta per il controllo di questo paese di 46 milioni di abitanti. Da un lato Hemetti, che negli ultimi anni, attraverso le Rsf è arrivato a guidare un impero economico con il sostegno degli Emirati Arabi Uniti, cerca di presentarsi come il difensore della democrazia e di far dimenticare il suo passato di comandante janjaweed (i miliziani filogovernativi attivi all’epoca della guerra in Darfur, vent’anni fa).
Dall’altra parte ci sono “gli islamisti nell’esercito, che da anni fanno pressione su Al Burhan perché si sbarazzi di Hemetti”, spiega un collaboratore del sito d’informazione e analisi Sudan in the News, che preferisce restare anonimo per ragioni di sicurezza. A giudicare dall’escalation sia militare sia verbale, il conflitto è destinato a durare. Su Twitter Hemetti ha scritto che si batte “contro gli islamisti radicali” e che è pronto a “dare la caccia ad Al Burhan e a consegnarlo alla giustizia”.
Perdere tutto
Secondo Kholood Khair lo scontro tra i due generali è diventato “esistenziale”. “Chi perde rischia di perdere tutto, e sembra che entrambi siano pronti a combattere fino alla vittoria, a qualunque costo”, sostiene. Dubita che i due accetteranno una mediazione, “a meno che non si accorgano di non poter vincere in nessun modo”.
Le violenze sono di una portata così ampia che il presidente della commissione dell’Unione africana (Ua), Moussa Faki Mahamat, non è ancora riuscito a partire per il Sudan, anche se il 16 aprile aveva promesso di andarci “immediatamente” per “convincere le parti a rispettare un cessate il fuoco”. Gli appelli a fermare gli scontri sono arrivati da Cina, Russia, Stati Uniti, dagli stati del Golfo e dai vicini del Sudan.
“Nessuno ha interesse a vedere il Sudan sprofondare nella violenza, perché questo comporta un grave rischio di destabilizzazione regionale”, ricorda Anette Hoffmann, ricercatrice del Clingendael institute, con sede nei Paesi Bassi. “Questo non significa che gli altri paesi abbiano svolto un ruolo costruttivo prima degli scontri”.
La firma, il 5 dicembre 2022, di un accordo di principio tra i generali e una coalizione di organizzazioni della società civile, riunite nelle Forze per la libertà e il cambiamento, era stata accolta dalla comunità internazionale come una tappa decisiva verso il ritorno della democrazia. Un processo che era cominciato nel 2019, dopo la caduta della dittatura di Omar al Bashir, ma era stato interrotto da un colpo di stato, il 25 ottobre 2021, orchestrato dal generale Al Burhan e da Hemetti. Prima di combattersi, i due militari avevano sempre agito insieme per schiacciare ogni velleità democratica dei sudanesi. Il 3 giugno 2019 avevano massacrato i manifestanti che partecipavano a un sit-in pacifico davanti al quartier generale dell’esercito, causando più di 120 morti, secondo le stime del comitato dei medici sudanesi. Successivamente avevano represso le manifestazioni settimanali per la democrazia, causando la morte di altre 120 persone.
In quel periodo le due parti avevano evitato di affrontare le questioni che oggi hanno portato al conflitto, dall’integrazione nell’esercito delle Rsf al tema cruciale della giustizia di transizione. “I generali si sono convinti che la scarsa sollecitudine della comunità internazionale a chiedere conto delle loro azioni significasse che avevano un margine di manovra usando le armi per regolare i loro conti”, commenta Kholood Khair.
Gli elementi islamisti all’interno dell’esercito, un lascito del regime di Al Bashir, si sono apertamente opposti all’accordo con la società civile. Il 6 aprile era prevista l’ufficializzazione di un secondo accordo, ma è stata rimandata a data da destinarsi. “Firmarlo avrebbe messo Hemetti sullo stesso livello di Al Burhan. Non firmarlo avrebbe provocato la collera della comunità internazionale. Quindi è possibile che gli islamisti all’interno dell’esercito abbiano scelto di provocare degli scontri con le Rsf per risolvere la questione”, spiega la ricercatrice. È una fuga in avanti dalle conseguenze potenzialmente devastanti.
“La natura senza precedenti di questo conflitto potrebbe causare una crisi dei profughi mai vista nella storia del Sudan, oltre che alimentare l’odio tribale ed etnico, e indebolire le aspirazioni democratiche sudanesi”, prevede l’analista di Sudan in the News. Quest’ultimo punto si può facilmente constatare, osserva l’esperto politico Mahmoud Salem su Twitter: “La priorità è passata dalla formazione di un governo civile alla spartizione del potere tra i militari. Le forze civili sudanesi non fanno più parte della futura equazione del potere”.
Per i manifestanti sudanesi è “un conflitto tra due forze controrivoluzionarie, che lottano per controllare il saccheggio delle risorse dello stato e l’oppressione dei civili”, conclude l’analista di Sudan in the News. ◆ fdl
◆ Dal 15 aprile 2023, in quattro giorni di combattimenti tra l’esercito sudanese e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), sono state uccise almeno 270 persone e altre 2.600 sono rimaste ferite, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità pubblicate il 19 aprile. Il bilancio, però, potrebbe essere più grave perché molte vittime non sono state conteggiate. Hanno perso la vita anche tre operatori del Programma alimentare mondiale (Pam), che ha deciso di sospendere le attività nel paese. In migliaia hanno abbandonato la capitale Khartoum, una città di cinque milioni di abitanti, dopo giorni di bombardamenti aerei (in particolare in corrispondenza dei ponti sul fiume Nilo) e battaglie per le strade. Chi vive nella capitale deve fare i conti con interruzioni frequenti dell’elettricità e dell’acqua corrente, mentre molti ragazzi e ragazze sono rimasti bloccati nelle università e nelle scuole. Il Comitato centrale dei medici, un’organizzazione di categoria sudanese, ha fatto sapere che 39 dei 59 ospedali di Khartoum e delle regioni vicine hanno dovuto chiudere. I combattimenti infuriano anche nelle regioni occidentali del paese, in particolare nel Darfur, e intorno all’aeroporto di Meroe, a nord della capitale, considerato un’infrastruttura strategica. Il 18 aprile c’è stato un tentativo di imporre un cessate il fuoco, ma è stato subito violato. L’esercito e le Rsf si sono accusati a vicenda di non aver rispettato la tregua. Al Jazeera, Afp
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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati