In Francia l’origine del problema del narcotraffico, dei furti con scasso, del terrorismo, delle violenze fisiche sta nei trafficanti di droga, i rapinatori, i terroristi, gli aggressori. Per le questioni legate all’onestà, invece, sembra che il problema siano i tribunali. Più precisamente, chi amministra la giustizia in nome del popolo francese. Secondo i numerosi commenti sulla condanna per appropriazione indebita di fondi pubblici di Marine Le Pen, la leader del partito di estrema destra Rassemblement national (Rn), i giudici sarebbero diventati soggetti che destabilizzano la democrazia.

Una follia che nasconde un disegno politico profondamente malato e pericoloso: un desiderio di tornare a privilegi che erano stati aboliti nel 1789. Il termometro più preciso di questa patologia nazionale si trova paradossalmente fuori della Francia. Il Cremlino di Vladimir Putin, come tutti sanno grande difensore delle libertà, ha fatto sapere di essere preoccupato per una “violazione delle norme democratiche in Francia” (vietato ridere), mentre l’autocrate ungherese Viktor Orbán postava su X un tenero: “Je suis Marine”, Io sono Marine (vietato ridere, di nuovo).

Bisogna abituarsi, perché si tratta di una tendenza molto diffusa. La Francia vive ormai al ritmo di un’internazionale populista che ha nel mirino soprattutto lo stato di diritto e che ha già fatto grandi danni all’estero: Donald Trump negli Stati Uniti, Silvio Berlusconi in Italia, Jair Bolsonaro in Brasile, Benjamin Netanyahu in Israele.

La Francia non è immune. Con la sentenza su Le Pen e con la requisitoria pronunciata sul caso Sarkozy-Gheddafi (in cui l’ex presidente francese Nicholas Sarkozy è accusato di aver ricevuto milioni di euro dal dittatore libico Muammar Gheddafi per finanziare la campagna elettorale del 2007), siamo di fronte a un test di resistenza democratica per il paese. Né più, né meno. Il momento però è orwelliano. Chi vota le leggi? Non sono i magistrati, ma i politici. Da dove arriva la legittimità degli eletti? Dal voto popolare. E secondo alcuni solo il voto popolare può sanzionare le derive degli eletti. Si capisce la stravaganza – e la falsità – di una simile posizione? In Francia chiunque, se riconosciuto colpevole di un reato, può essere interdetto dall’esercizio della sua professione fin dal primo grado di giudizio. Invece per i parlamentari s’invoca l’immunità, come hanno sostenuto gli avvocati di Le Pen durante il processo. “La proposta della difesa rivendica un privilegio o un’immunità che deriverebbe dallo status di eletto o di candidato, in violazione del principio di uguaglianza davanti alla legge”, ha spiegato in risposta la presidente del tribunale Bénédicte de Perthuis, emettendo il verdetto che ha condannato Le Pen a quattro anni di carcere (due dei quali senza condizionale) e a cinque anni di ineleggibilità con effetto immediato. Illustrando per tre ore le motivazioni della sentenza, la giudice ha sottolineato “la gravità dei fatti, il loro carattere sistematico, la durata per dodici anni e lo status di eletta”. Si parla di più di quattro milioni di euro di fondi pubblici, sottratti dalle casse del parlamento europeo per remunerare dipendenti fittizi dell’Rn. Il fatto che il dibattito si focalizzerà soprattutto sull’esecuzione provvisoria della condanna farà dimenticare il nocciolo della questione.

Reiterazione del reato

Di chi è la colpa? Della giustizia che applica la legge o degli imputati che hanno commesso un reato? La presidente del tribunale ha parlato di un palese rischio di reiterazione del reato, motivandolo con l’atteggiamento tenuto nel corso delle indagini e anche durante le udienze. Gli imputati hanno negato evidenze elementari e hanno screditato l’autorità giudiziaria. Un fatto piuttosto paradossale per un partito che parla continuamente di ordine. Le Pen non è quella che si è sempre battuta per l’ineleggibilità a vita degli eletti condannati per reati contro l’amministrazione, e in particolare per appropriazione illecita di fondi pubblici?

Essendo evidente il rischio di problemi di ordine pubblico causati da persone che non sembrano aver compreso la gravità delle azioni commesse, il tribunale ha ritenuto indispensabile l’esecuzione provvisoria. La cosa buffa è che la persona che ha involontariamente dato più ragione a de Perthuis è stata la stessa Le Pen. La leader dell’Rn ha ritenuto di poter lasciare il tribunale prima che si fosse conclusa la lettura della sentenza, consapevole del fatto che non avrebbe potuto evitare una condanna e l’immediata ineleggibilità.

Purtroppo era prevedibile che una parte di un mondo politico che ha a cuore i suoi privilegi più dell’interesse generale reagisse così. Meno prevedibile era il fallimento del giornalismo economico in Francia. I fatti non sono quasi mai presentati come frutto di una delinquenza che devasta le basi della società, ma come una gara di tiro al piattello tra i Torquemada giudiziari e i politici vittime di una presunta “repubblica dei giudici”. La requisitoria sul caso Sarkozy-Gheddafi, al termine della quale il pubblico ministero ha chiesto sette anni di carcere senza condizionale contro l’ex presidente, ha dato luogo a uno spettacolo desolante in tv. Il canale Lci ha organizzato un dibattito – sul tema “I giudici fanno politica?” – a cui era stato invitato il figlio di Sarkozy, Louis, che è anche figlioccio del proprietario del canale, Martin Bouygues. L’argomentazione secondo cui si tratta di un dossier “vuoto” e “senza prove” è stata ripetuta fino alla nausea da editorialisti che non hanno seguito il processo.

Nessuno sa cosa deciderà il tribunale sul caso Sarkozy-Gheddafi, ma chi ha assistito al processo sa che il dossier è tutt’altro che vuoto. Le Figaro, un giornale che difficilmente si potrebbe tacciare di anti-sarkozysmo, ha scritto che “l’argomentazione della procura è stata, nel suo complesso, devastante”. Le Monde ha definito la “requisitoria” della procura “pesante, ben strutturata, minuziosa”. Le Nouvel Observateur ha parlato di “tre giorni di requisitorie implacabili”.

A pagina 44 del suo libro L’alba, la sera o la notte (Bompiani 2007), una cronaca delle elezioni presidenziali del 2007, la scrittrice Yasmina Reza aveva riferito questa confidenza di Laurent Solly, all’epoca vicedirettore della campagna del futuro presidente della repubblica Sarkozy: “Qualche giorno dopo lo stesso Laurent mi dirà che la realtà non ha alcuna importanza. Conta solo la percezione”. Ed eccoci qui. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1608 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati