D’estate ricorro volentieri a filmati in bianco e nero. Senza il giallo e il rosso del sole, le sequenze hanno un effetto refrigerante. La tv si fa ventilatore. Un poeta strambo e senza fissa dimora di nome Maulu, romano di nascita e cagliaritano di adozione, qualche anno fa diventò celebre, suo malgrado, per un’intervista di strada in cui sosteneva, con lingua fantasiosa, che la televisione avesse svenduto i colori e per questo il pubblico non fosse più capace di distinguerli. Pur non avendo io gli strumenti per sviluppare questa teoria, ritengo che ci sia un’intuizione. La tendenza del piccolo schermo a “smarmellare” l’immagine, come si dice in gergo, e ridurre tutto a un’indistinta ammucchiata cromatica ha del vero. È raro cogliere e apprezzare le tonalità, le sfumature, i gradienti, le ombre, laddove spadroneggia la luminosità. Nel 1972 l’allora direttore generale della Rai Ettore Bernabei approfittò delle Olimpiadi per testare due sistemi di trasmissione a colori. Alcune gare andarono in onda nella modalità francese “secam”, altre in “pal”, d’invenzione tedesca. Finimmo con l’adottare quest’ultima, stabile e con immagini più nitide. La Rai c’investì in ritardo rispetto agli altri paesi europei, per l’opposizione dell’industria cinematografica, che ne temeva la concorrenza, e per l’allarme di una parte della politica, soprattutto a sinistra, che ne paventava il potenziale ottico tutto a favore del mercato pubblicitario. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati