Il 18 dicembre 2022 allo stadio di Lusail, in Qatar, si giocherà la finale dei mondiali di calcio maschile. Sarà la fine di un viaggio cominciato nel dicembre 2010, quando la Fifa scelse il paese del Golfo per ospitare il torneo. Ma il 18 dicembre è anche la giornata internazionale dei migranti, istituita per onorare il loro lavoro e i loro sacrifici, e nella stessa data il Qatar celebra la sua festa nazionale.
Di recente il ministro del lavoro qatariota Ali bin Samikh Al Marri ha respinto la proposta di istituire un fondo per risarcire le vittime di sfruttamento e le famiglie di chi ha perso la vita nei cantieri, sottolineando ancora una volta la mancanza di diritti per gran parte dei lavoratori stranieri nel paese. La Fifa, la federazione che governa il calcio internazionale, non si è esposta. Anche i paesi dell’Asia meridionale hanno le loro responsabilità, perché non pretendono risposte sugli abusi. I mondiali devono molto a questa regione non solo perché i palloni si producono a Sialkot, in Pakistan: tutti gli avveniristici complessi sportivi del Qatar, un investimento da 220 miliardi di dollari, sono in larghissima parte stati costruiti da lavoratori provenienti dall’Asia del sud. Sono persone che garantiscono i servizi essenziali in Qatar: lavorano negli stadi, negli alberghi, nei centri commerciali e negli aeroporti, e le rimesse che inviano sono spesso l’unica fonte di reddito per le loro famiglie.
Le regole della kafala
Con la sua indifferenza la Fifa ha incoraggiato gli abusi. E il Qatar è stato giustamente criticato per gli altissimi costi umani del suo programma Road to 2022. La Fifa non ha messo in discussione la kafala – il violento sistema di sponsorizzazione usato per reclutare la manodopera straniera, la cui gestione è appannaggio dei privati – e nemmeno il divieto per i lavoratori di formare organizzazioni sindacali e di scioperare.
Dopo molte pressioni, Doha ha introdotto alcune riforme che hanno in parte affrontato la questione. Nel 2020 ha attivato un fondo previdenziale per garantire gli stipendi quando le aziende si rifiutano di pagarli. A settembre del 2022 erano stati erogati più di 320 milioni di dollari, una cifra enorme, che sottolinea la portata del problema. La maggior parte degli immigrati ha dovuto perfino versare dei soldi per poter costruire quelle opere multimiliardarie sotto il sole cocente. Secondo un sondaggio del 2020 il costo medio per presentare domanda di lavoro dal Bangladesh era di 3.863 dollari, l’equivalente di diciotto mesi di stipendio in Qatar. Buona parte del denaro inviato ai familiari serve a rimborsare i debiti contratti per farsi assumere.
Le aziende affiliate alla Supreme committee for delivery and legacy, l’ente qatariota che supervisiona i progetti e i cantieri delle strutture dei mondiali, si sono impegnate a rimborsare per più di 28 milioni di dollari le commissioni di reclutamento sostenute da 48.814 lavoratori stranieri. Un’iniziativa positiva, ma insufficiente. In Qatar gli immigrati con contratti a tempo determinato sono più di 2,2 milioni.
È vero che il Qatar ha cercato di rivedere il sistema della kafala, ma le riforme hanno prodotto scarsi risultati perché avevano obiettivi modesti e sono state attuate tardi e poco applicate. Ecco perché Human rights watch, Amnesty international e altre organizzazioni umanitarie hanno chiesto alla Fifa e alle autorità qatariote di farsi carico degli abusi compiuti nelle fasi di preparazione ai mondiali, risarcendo le morti sul lavoro, gli infortuni e il mancato pagamento degli stipendi.
Nonostante le pressioni crescenti da parte degli sponsor, delle associazioni calcistiche, degli ex giocatori e dei tifosi, la Fifa non risponde, mentre il ministro Al Marri ha liquidato la proposta di istituire un fondo d’indennizzo per i lavoratori sfruttati come una “trovata pubblicitaria”. Eppure Doha e la Fifa possono ancora decidere per cosa saranno ricordati questi mondiali: è una loro responsabilità rimediare agli abusi e hanno le risorse economiche per farlo. Al Marri ha detto che “ogni morte è una tragedia”. Ma il dramma è che le autorità non sono riuscite a indagare in modo adeguato sui decessi di molti lavoratori, citando cause naturali o inspiegabili, archiviandoli come semplici arresti cardiaci. Li hanno slegati dalle condizioni di lavoro, insomma. E quindi non hanno riconosciuto nessun diritto a un risarcimento. Ma solo delle indagini serie possono stabilire se quelle morti sono state causate dallo stress dovuto alle altissime temperature.
In tutto la Fifa ha stanziato 260 milioni di dollari per i cosiddetti legacy funds, destinati a progetti umanitari nei paesi che hanno ospitato i tre precedenti campionati del mondo: il Sudafrica nel 2010, il Brasile nel 2014 e la Russia nel 2018. Dovrebbe farlo anche in Qatar, se non vuole che la Coppa del mondo del 2022 lasci in eredità solo il ricordo degli abusi commessi nei confronti dei lavoratori.
Volontà politica
I governi dei paesi dell’Asia meridionale possono ancora sostenere le richieste di risarcimento e assicurare maggiori protezioni ai propri cittadini che lavorano in Qatar. In particolare, possono rispondere alle domande del ministro Al Marri che ha chiesto: “Dove sono queste vittime? Conoscete i loro nomi? Chi ha dati ufficiali?”.
Sia Doha sia i paesi di origine hanno le risposte: sono scritte nei documenti ufficiali compilati dai familiari per rimpatriare le salme dei loro cari. Se gli stati dell’Asia meridionale prendessero l’iniziativa, sarebbero sostenuti dalla società civile e dai mezzi d’informazione nazionali, che sono in grado di rintracciare i parenti dei lavoratori sfruttati e di quelli che hanno perso la vita.
Il vero ostacolo alla creazione di un fondo di risarcimento per gli immigrati che hanno costruito i complessi sportivi in cui si stanno svolgendo i mondiali e per le loro famiglie non è mai stato la mancanza di dati, ma la volontà politica. Solo ammettere gli abusi compiuti e garantire una riparazione economica può restituire un po’ di umanità a questo viaggio lungo dodici anni che si concluderà in un giorno simbolico come il 18 dicembre. ◆ gim
Meenakshi Ganguliy è direttore per l’Asia meridionale di Human rights watch. Mohna Ansari ha fatto parte della Commissione nazionale per i diritti umani del Nepal.
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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati