B jörn Süfke era un ragazzo quando la Germania per poco non diventò campione del mondo. Era il 1986. La finale dei Mondiali di calcio, Germania contro Argentina, si giocava a Città del Messico. Süfke stava guardando la partita con il padre. All’81° minuto il tedesco ­Rudi Völler fece gol con un colpo di testa: due a due, pareggio! Entrambi saltarono in piedi dalla gioia. “Fu la prima e l’ultima volta in cui mio padre mi abbracciò”, dice Süfke.

Il calcio può far affiorare forti emozioni in esseri solitamente granitici: gioia maschile, rabbia maschile, preoccupazione maschile, senso d’impotenza maschile, dolore maschile. Sul divano o allo stadio, improvvisamente fanno la loro comparsa. Si piange e si grida. Alcuni durante i novanta minuti diventano quasi irriconoscibili. Come fanno 22 atleti che seguono un pallone a smuoverli tanto?

Björn Süfke non è solo un tifoso di calcio, ma anche uno psicologo. A Bielefeld, tra le altre cose, aiuta gli uomini a esprimere le emozioni. Le donne in genere sono più abituate a farlo, per via dell’educazione. “È sbagliato pensare che gli uomini non debbano mostrare i loro sentimenti”, dice Süfke. “La norma sociale recita: non potete avere un’emotività”. Davanti alla domanda su come si sentono, molti infatti si chiudono a riccio. E questo perché non sanno davvero cosa dire.

Nel calcio ci sono altre regole. “È forse l’unico contesto in cui agli uomini è consentito essere emotivi, spontanei e diretti”, continua Süfke. L’amore di alcuni per la propria squadra è paragonabile a quello per un partner o per un animale domestico. Dopo una sconfitta un uomo può perfino dire: “Oggi sono davvero depresso”. In altre occasioni lo prenderebbero in giro.

Nicole Selmer, vicecaporedattrice della rivista di calcio Ballesterer, la vede così: proprio perché nella vita quotidiana gli uomini mostrano meno le emozioni, durante le partite sono più evidenti. In altri contesti è raro vedere uomini che si abbracciano piangendo, ma lo stadio è così pieno di mascolinità che può “facilmente sopportare qualche lacrima maschile”. Selmer sottolinea che il calcio è molto associato alla mascolinità e che lo stadio è un luogo dominato dagli uomini. Questo ha una ragione anche storica: in centocinquant’anni hanno dettato legge sempre loro in questo sport.

Per Selmer si tratta di una mascolinità definibile di tipo proletario. In passato erano soprattutto gli uomini della classe operaia ad andare allo stadio, rendendo il calcio un fenomeno di massa. Oggi sugli spalti ci sono anche banchieri e consulenti aziendali, ma la figura del tifoso proletario resiste. E in qualche modo, in questo contesto, tutto appare maschile, anche le emozioni intense.

Regole chiare e definite

La fascinazione per lo sport potrebbe avere a che fare anche con istinti molto antichi. “La caccia alle prede più grandi funzionava solo in squadra”, spiega lo psicologo di Lubecca Laszlo A. Pota. Nel calcio entrano in gioco la forza fisica e la superiorità psicologica. Questa tensione si trasmette agli spettatori, sia allo stadio sia a casa. E chi si lascia coinvolgere non deve preoccuparsi troppo di come appare: “La comunità mi protegge nell’anonimato”.

Per l’etnologa Tatjana Eggeling, che studia i fenomeni calcistici, al centro c’è il senso di comunità. Lo sport ha un ruolo secondario. Le persone tifano insieme e sono legate dalla loro passione. “È diverso, per esempio, da come ci si comporta in strada. Lì se accade qualcosa di brutto forse alcune persone reagiscono, ma non si sentono parte di un gruppo”.

Anche il filosofo Paul Hoyningen-Huene si domanda come mai il calcio affascini tanto. Lo descrive come uno sport di combattimento, dove ogni partita è una sorta di battaglia. “Con la differenza che sappiamo che dopo novanta minuti è tutto finito”. Per lui la metafora della caccia è troppo limitata. Una partita di calcio racchiude gli elementi fondamentali della vita: gli alti e bassi, e soprattutto il fattore decisivo del caso. Non genera emozioni perché si tifa tanto per una squadra, ma perché trattandosi solo di un gioco non si devono temere conseguenze sociali per i propri sfoghi emotivi. Secondo il filosofo le forti emozioni nascono per due motivi. Nel gioco valgono, diversamente dalla vita reale, regole chiare e definite. Se un calciatore si comporta in modo antisportivo, un arbitro sbaglia a fischiare o emergono scandali finanziari, i tifosi si sentono traditi, indignandosi di più che per le violazioni dei diritti umani compiute da aziende miliardarie. Le federazioni calcistiche sfruttano questo senso di ingiustizia, spesso fuorviato proprio dalle emozioni. Le stesse competizioni sono costruite per aumentare la tensione, come negli Europei: “Nella fase a gironi sono eliminate le squadre più scarse, poi quelle rimaste si affrontano in scontri diretti: un gol può decidere tutto”. Ci si affida volutamente al caso, perché è più emozionante.

Non sono solo gli uomini a lasciarsi andare, anche le donne manifestano aggressività attraverso lo sport. In genere ci si aspetta che non lo facciano, spiega Eggeling: “Le donne aggressive suscitano diffidenza e rifiuto perché non si adattano ai modelli di femminilità”. Ma anche per loro durante una partita valgono altre regole. Le donne non hanno sempre fatto parte della comunità dei tifosi. I pregiudizi sessisti hanno avuto un ruolo, ma anche l’atmosfera generale. “Le donne erano intimorite dall’esplosione di emotività maschile che vedevano allo stadio”, sostiene Eggeling. Le federazioni hanno cercato di coinvolgerle per mitigare l’aggressività maschile. E in parte la cosa ha funzionato.

Considerare il calcio una valvola di sfogo per le emozioni è per molti esperti riduttivo. “Gli uomini non vanno allo stadio pensando: ‘Qui posso piangere’”, dice Selmer. Süfke è d’accordo: “Per scaricare la pressione dovrebbero riflettere sui sentimenti che hanno provato”. Molti parlano di come si sentono dopo una partita, ma spesso in modo superficiale. È su questo che vuole lavorare il consulente Marc Pomplun: il fatto che gli uomini parlino liberamente delle emozioni che provano guardando una partita è già qualcosa. Nei suoi seminari sul calcio, suggerisce di fare lo stesso in altri ambiti della vita. “Alcuni hanno bisogno di questo appiglio per capire cosa provano”, dice. Mostrare le emozioni allo stadio può costare molto agli uomini: ci sono innegabilmente gruppi di tifosi che escludono e discriminano. Ma il calcio, afferma Pomplun, è un’opportunità imperdibile per provare a tradurre in parole i sentimenti. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati