Dal 15 aprile 2023 le forze armate sudanesi (Saf, l’esercito nazionale) e le Forze di supporto rapido (Rsf, paramilitari) combattono una guerra d’attrito complicata da lotte di potere, differenze ideologiche a livello nazionale e internazionale, e sfumature etniche. È possibile risolvere questo conflitto, che ha causato almeno ventimila morti e messo in fuga milioni di persone, attraverso dei negoziati? E in uno scontro in cui chi vince prende tutto quante possibilità ci sono di portare avanti dei colloqui di pace?

Le Saf, guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan, e le Rsf, comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, hanno numerosi alleati, armati e non. A sostenere gli uni o gli altri c’è anche una rete di governi stranieri – tra cui Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Arabia Saudita, Stati Uniti e Russia – i cui interessi non sono sempre in linea con quelli sudanesi. In questo contesto è emersa un’organizzazione della società civile, Taqaddum (Progresso), guidata dall’ex primo ministro Abdallah Hamdok, che si presenta come un’alternativa e un’interlocutrice tra le parti.

Diversi canali

Dall’inizio della guerra sono stati aperti diversi canali di mediazione. Il primo tentativo è stato fatto da Arabia Saudita e Stati Uniti, ma gli ultimi negoziati organizzati a Ginevra nell’agosto 2024 non hanno dato risultati. Altri sforzi sono condotti dall’Unione africana, dall’organizzazione regionale Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), dall’Egitto e dalle Nazioni Unite, attraverso il loro inviato Ramtane Lamamra. Finora tutti questi tentativi sono falliti per le condizioni poste dalle Saf (che non hanno voluto neanche presentarsi a Ginevra), per le vittorie sul campo riportate dai loro avversari e perché una parte non riconosce la legittimità dell’altra. Le strategie dei mediatori seguono spesso una logica incrementale: si comincia a parlare di un cessate il fuoco umanitario per puntare più avanti a un accordo di condivisione del potere. Le parti coinvolte nei colloqui sanno prevedere le tappe ed esitano a impegnarsi in processi che alla lunga potrebbero riportare il Sudan a una situazione simile a quella precedente alla guerra. Soprattutto, le fazioni sudanesi hanno idee diverse sul futuro del paese. Prima del conflitto le Rsf non avevano voluto essere assorbite nell’esercito perché non si fidavano degli esponenti del vecchio Partito del congresso nazionale (Ncp, l’ex formazione di Omar al Bashir messa al bando nel 2019) che occupavano posizioni di alto livello nelle Saf. Questa diffidenza è stata una delle cause scatenanti del conflitto.

Da allora le ambizioni delle Rsf sono cresciute e oggi comprendono la presa del potere e un cambiamento radicale del panorama politico. Nella loro visione del futuro, però, non c’è più posto per l’Ncp e gli islamisti, ritenuti responsabili della situazione disastrosa del paese per la loro volontà di fondere stato e religione.

D’altra parte, le fazioni delle Saf che provengono dall’Ncp e dagli ambienti islamisti considerano i paramilitari delle Rsf dei soldati dilettanti, se non addirittura dei traditori, a cui non si possono affidare incarichi di rilievo. Gli alti ufficiali, in particolare, nutrono un profondo risentimento verso le Rsf e ritengono che l’unica risposta al loro “tradimento” sia la violenza. Le Saf rimproverano alle Rsf anche di non aver rispettato gli impegni assunti con gli accordi di Jedda del 2023, che imponevano di proteggere i civili. L’esercito non sembra neanche disposto a condividere il potere con i civili di Taqaddum, un gruppo ritenuto più influente all’estero che in patria.

Negoziare con le Rsf mette tutte le parti davanti a sfide legali ed etiche: questa milizia ha infatti una lunga storia di violazioni dei diritti umani risalente al conflitto in Darfur del 2003. Allo stesso tempo non è possibile escluderla perché controlla metà del territorio. Anche se si proclama imparziale, Taqaddum non ha mai nascosto la sua antipatia verso gli islamisti e gli esponenti del regime di Bashir, finendo per essere associato alle Rsf. Un’altra debolezza della coalizione è che non può rivendicare il ruolo di leader nella società civile perché ci sono altre forze importanti, come i Comitati di resistenza, le Forze della libertà e del cambiamento e il Blocco democratico.

Diplomazia
Il generale e i suoi alleati

Per il comandante sudanese Abdel Fattah al Burhan “settembre è stato ancora una volta un mese fortunato, perché ha potuto presentarsi al resto del mondo come il leader legittimo del suo paese”, scrive Mawahib Abdallatif sul settimanale The East African. In occasione del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac), che si è svolto dal 4 al 6 settembre 2024, Burhan è andato a Pechino per incontrare il presidente cinese Xi Jinping. “I colloqui non hanno dato grandi risultati, ma hanno permesso al generale sudanese di farsi fotografare insieme all’alleato e di ottenere rassicurazioni. Il presidente cinese ha detto che Pechino sostiene il Sudan nella ‘salvaguardia della sovranità nazionale, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale, nella speranza che nel paese torni la pace’. La Cina vuole inoltre garantire ‘la giustizia per il Sudan negli incontri multilaterali’ e le ‘giuste condizioni esterne per una soluzione politica alla crisi sudanese’”.

Contando la Cina, uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Burhan ha l’appoggio di due alleati, visto che la Russia gli ha già dato il suo sostegno. “In passato Pechino e Mosca hanno difeso il Sudan nei forum dell’Onu, anche di fronte alle critiche occidentali”, ricorda il giornale keniano. Secondo alcune fonti diplomatiche a Khartoum, c’è la speranza che le recenti mosse di Burhan spingano anche gli Stati Uniti ad appoggiarlo, riconoscendolo come leader legittimo del periodo della transizione (dopo la caduta del regime di Omar al Bashir). Il 18 settembre Burhan ha dichiarato di essere pronto a fare “sforzi costruttivi per la pace”, una dichiarazione a cui ha fatto seguito la risposta positiva del suo avversario Mohamed Hamdan Dagalo in un post sul social media X. Ma intanto nel paese proseguono gli attacchi contro i civili e i bombardamenti, in particolare nell’ovest e vicino alla capitale Khartoum. ◆


Anche se non è chiaro quali siano le ambizioni del Taqaddum, si può ipotizzare che il suo obiettivo sia ottenere il potere. Per farlo deve allearsi, apertamente o in segreto, con una delle fazioni armate, con grandi rischi sul piano politico. A conti fatti, alcuni analisti ritengono le Rsf più affidabili delle Saf.

Come Libia e Somalia

L’inflessibilità di tutte le parti coinvolte sta trasformando il Sudan in una via di mezzo tra la Libia e la Somalia. Nonostante le forti divergenze, per raggiungere la pace le parti devono negoziare con gli avversari, a prescindere da quanto li considerino colpevoli. Questa linea è coerente con le raccomandazioni dell’Igad, dell’Ua e dell’Onu per un processo di pace “inclusivo”. Se invece si vorrà insistere su una soluzione che coinvolga solo alcuni protagonisti del conflitto, questa potrebbe avere effetti sul periodo post-bellico, con la concreta possibilità che il Sudan finisca per disintegrarsi. Le parti in guerra possono imparare dalle esperienze di paesi come il Sudafrica, la Colombia e l’ex Jugoslavia, dove fazioni nemiche sono riuscite a parlarsi e gradualmente a rendere meno sanguinosi gli scontri. ◆ gim

Moses Chrispus Okello è un esperto ugandese di analisi dei conflitti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 27. Compra questo numero | Abbonati