Il mio ragazzo, il comico, si divertiva a parlarmi del rifiuto: dove nasceva, come affrontarlo con dignità, quanto fossero pericolose, perfino cancerogene, le sue componenti. Diceva che la sensazione di rifiuto era come quella che sentivo se mi pizzicavo appena sopra la cintura, dove il grasso è meno evidente. Secondo lui il legame tra il cancro e i fallimenti ripetuti era inconfutabile. Aveva un sacco di idee insolite. “Senti qui”, diceva, afferrandomi i fianchi e le cosce, “questa è esattamente la consistenza del rifiuto”.

Il mio ragazzo era famoso e io no. Quando passeggiavo lungo il nostro viale alberato, in città, rientravo a casa con tazze di caffè in polistirolo, cornetti e souvenir che pensavo di spedire agli amici. Quando lui camminava per strada, tornava appesantito e frustrato dall’adorazione della gente. Spesso mandava in giro me. Mi diceva: “Portami un caffè bollente”, come se fossi un’assistente. “Lo voglio così caldo da sembrare l’inferno”, dicevo al barista.

Non mi faceva molte domande sulla mia vita. Si era fatto strane idee sull’Irlanda, legate soprattutto alla povertà, guardando un documentario. La chiamava “quel posto”

Amavo il mio ragazzo. I nostri tira e molla mi ricordavano dei film in bianco e nero che non avevo mai visto. Fisicamente non eravamo uguali. Sui moduli, eravamo in fasce d’età diverse: lui spuntava una casella, io un’altra. Ma non eravamo il tipo di persone che compilano moduli. Lui si agitava per le cose che leggeva in rete e io sapevo come farlo felice. “Ecco”, dicevo porgendogli una palla di vetro con la neve e dentro una miniatura dell’Empire State building, “questa è per te”. “Sei molto dolce”, mi diceva. Credo che fosse vero: potevo essere dolce. Ero irlandese. Non volevo calcare troppo la mano, entrare troppo nel ruolo, sminuirmi. Quando mia madre formalizzò il divorzio da mio padre mi disse solo: “Non dare mai alle persone quello che vogliono”. Era un ottimo consiglio. Alla festa dove l’ho incontrato per la prima volta gli ho spiegato che non ero una persona famosa e che non avevo nessuna intenzione di diventarlo. Volevo farlo ridere. Lui mi piaceva. Non era una cosa che mi capitava tutti i giorni. “Davvero”, gli ho detto, “nutro il sereno, nevrotico sospetto che anche le persone che mi conoscono non vogliano conoscermi. È il contrario di essere famosi”. Una settimana dopo sono andata a stare da lui. La prima sera, dopo aver disfatto le valigie, ho visto un uomo a petto nudo nel palazzo di fronte che lanciava camicie dalla finestra. Erano di buona fattura, avevano visto case raffinate. Si capiva dal modo in cui volavano. Una qualità tesa e benestante, che volteggiava con grazia. Le camicie svolazzavano, poi cadevano, e sprazzi di verde e rosa animavano il cielo. L’uomo mi guardava sorridendo mentre toccavano terra.

Durante le nostre prime settimane insieme, mi ha incoraggiato a recitare. Gli sembrava che al pubblico sarei piaciuta. Non avevo problemi con le parti, ma con le stanze in cui dovevo entrare per ottenerle. Le stanze in cui dovevo stare per ottenere le parti. Prima mi dicevo: “Devi farcela, devi farcela”, poi mi bloccavo. Gli apprezzamenti alle donne non usavano più, quindi tutto avveniva tramite un linguaggio ambiguo che non sopportavo. Anche se non avevo presenza, i registi apprezzavano la mia totale assenza.

Dicevano che ero come una persona sottovuoto, risucchiata, immobile. Il mio ragazzo mi paragonava al dipinto di un feto alieno e luminoso che aveva visto una volta: potente ma non nato. Lo stesso tipo di sguardo. Lavoraci su, mi ha suggerito. Fallo tuo. Ho annuito come se avessi capito e ho smesso di andare ai provini.

Oltre a recitare, avevo un lavoro saltuario che consisteva nello stendere strati di trucco su facce che stavano crollando. Per anni ho migliorato volti, mostrando il mio come ispirazione. Mi presentavo nelle case brandendo il mio beauty case, raschiavo via i tratti indesiderati e ne tracciavo di migliori. Queste donne mi davano consigli per vivere la città: trova persone di cui ti puoi fidare, proteggi la pelle dall’inquinamento, guarda da entrambe le parti quando attraversi la strada. Ma non lavoravo molto. Non ne avevo bisogno. Il comico mi porgeva una mazzetta di banconote e io andavo in giro fingendo di appassionarmi alle piccole cose della vita. Era estate e andavo agli spettacoli di Broadway perché c’era l’aria condizionata, bevevo Diet Coke e guardavo dei ragazzini sul palcoscenico che sbattevano le porte e facevano adorabili capricci. Mangiavo roba scadente, roba che a un primo sguardo non sembrava neanche da mangiare. Ci voleva una seconda occhiata. In metropolitana esaminavo le caviglie delle donne anziane, gonfie, solcate da grandi vene blu. Non vedevo l’ora di avere delle caviglie così. Mi avrebbero dato robustezza, uno stato che avevo sempre faticato a raggiungere. Sapevo che se avessi parlato al telefono con mia madre mi avrebbe chiesto come stavo e avrei mentito con facilità. In Irlanda, i miei primi vent’anni non erano stati gentili con me e avevo avuto quello che definivo con un eufemismo un “periodo irrequieto”. Avevo cominciato a pensare che sarebbe stato meglio se mi fossi tolta di mezzo, ma non ero sicura di cosa mi sarei trovata davanti. C’era stato un grave incidente, imbarazzante, in cui era stata coinvolta un’ambulanza, mia madre al mio capezzale in ospedale, inondata di lacrime e invecchiata di colpo, aveva un’espressione che diceva solo: “Non provare a farmi passare ancora una cosa del genere”. Alle sedute di riabilitazione, dove fingevo di annoiarmi, gli altri depressi non erano amichevoli, come se non mi prendessero sul serio o non mi fossi davvero guadagnata un posto tra loro, forse a causa del trucco o della mia giovinezza. Mi sembrava di essermi presentata a una festa a cui non ero esattamente invitata. Quando non sono stata più considerata un rischio per me stessa, me ne sono andata. Con la mia paura di volare, ho preso delle pillole in aereo. Per tre mesi ho dormito su materassi in appartamenti che tremavano, cullati dalla metropolitana. Poi ho incontrato il comico e la mia vita è diventata un volo incredibilmente tranquillo.

Mi piacevano le nostre serate insieme. Sbrigavo piccole faccende in giro per l’appartamento, spazzavo e pulivo le superfici. Non avevo nessun altro posto dove stare, nessun amico da vedere, nessuna famiglia in città. Facevo docce lunghe e vaporose. Godevo di pieni privilegi da fidanzata e potevo scegliere tra tanti asciugamani morbidi e colorati. Mi diceva che gli piaceva il mio viso, come annuivo, lo rassicurava. Non mi faceva molte domande sulla mia vita. Si era fatto strane idee sull’Irlanda, legate soprattutto alla povertà, guardando un documentario deprimente. La chiamava “quel posto”. La sera passava molto tempo al telefono parlando del suo programma televisivo con voce bassa e nervosa. Era invecchiato, non era più molto amato, e sotto la pelle i suoi organi sembravano gonfiarsi per lo stress. Era una specie di barzelletta mediocre, ma ero io che andavo a letto con lui, quindi, alla fine, forse la barzelletta ero io. Comunque, cosa resta da dire su quei primi giorni? Niente di che. Guardavamo la televisione a letto, gironzolavamo per l’appartamento, vivevamo nel nostro disordine. Quei mesi sono stati tra i più felici della mia vita.

Poi abbiamo cominciato a uscire. È lì che abbiamo sbagliato. Finita l’estate, ci siamo vestiti eleganti e siamo usciti. La prima sera, quando ancora non era tutto una routine, siamo finiti in un posto orrendo, ricoperto di vetrate, con un tappeto rosso srotolato come una lingua. L’atmosfera del ristorante ricordava, per freddezza, quella di un obitorio e ci siamo accomodati a un tavolo rotondo con una solennità da seduta spiritica. Il mio ragazzo era seduto lontano, quasi in un altro continente, e ogni tanto si voltava a guardare se ero ancora lì. Mi ama, pensavo. Osservavo le posate, il mio riflesso nelle posate, il riflesso di tutti nelle posate. Era così facile essere d’accordo con loro, con queste persone così eleganti! Provavo un’eccitante sensazione di leggerezza, come se avessi preso un po’ di antidolorifici. Mi sono ricordata che, in effetti, ne avevo presi molti. Capivo tutto.

Una donna è emersa dalla nebbia. “Allora, com’è stato crescere nel posto da cui provieni?”, mi ha chiesto. “È stata dura?”. Non ne avevo idea. Tutti i miei ricordi erano verdi e piatti, da cartolina. I miei, dopo una separazione tutt’altro che affettuosa, erano diventati dei genitori da cartone animato, solo gesti di rimprovero nella mia vita. Quando ho detto ai miei amici che sarei partita, mi hanno risposto che sarebbe stato fantastico. New York. Fantastico. La mia città era un posto strano travestito da normale, era come se vivessimo tutti sotto una soffocante pellicola di plastica. Ricordo le mie dita che scorrono sugli abiti a noleggio, la gommosità dell’involucro lavato a secco.

“Non c’erano molte opportunità”, ho detto, “di crescita”.

La donna ha scosso la testa come se stesse esprimendo un incontenibile dolore in solidarietà. Io ho sorriso. Sapevo che quel sorriso sarebbe stato l’apice del mio entusiasmo per la serata e che mi sarei svegliata al mattino, non più anestetizzata, con un nuovo odio nel cuore.

Quella notte bagnata dalla pioggia è stata la prima volta che abbiamo ascoltato il nastro. Quando siamo tornati a casa, l’ha fatto partire come se mi stesse facendo un favore. Il nastro – i suoi tentacoli neri avvolti intorno a due orbite circolari vuote, intrappolati per sempre in una scatola di riproduzione degli anni settanta – era il suo talismano. Regalo d’infanzia della madre, era il modo in cui aveva imparato ad affinare il suo numero nel seminterrato della sua casa di periferia, esibendosi per un pubblico immaginario. Sua madre era malata e crescendo non c’era molta felicità a casa sua. Premeva il tasto play e una risata maniacale scoppiava dalle labbra dell’antico nastro. “Mia madre era malata di mente”, ripeteva con una strana punta d’orgoglio, come se questo lo legittimasse. Avrei potuto buttare lì un po’ di psicologia spicciola sulla sua condizione attuale, ma sarebbe servito a qualcosa? Ho immaginato il comico da bambino, che piroettava disperato nel suo numero, allentando una cravatta immaginaria da adulto, preparandosi a una vita di successi. Un dodicenne che incanalava la sua energia frenetica e ossessiva nel seminterrato, mentre le risate coprivano i suoni dell’altro mondo appena sopra di lui. Quando immaginavo i suoi genitori, li vedevo sempre in abiti da lavoro, intenti a coltivare la terra, tutti seri.

Mi ha giurato che ero la prima donna a cui mostrava il nastro. A New York aveva frequentato molte ragazze: alcune famose, altre no, tagli di capelli asimmetrici, fredde e distanti come se fosse un requisito per la loro carriera. Gli piaceva fare commenti rozzi e meschini sulle sue ex. Non mi dava molto fastidio. Le tipe. Il modo in cui diceva le tipe. Sapevo che una relazione può finire per una sola parola, ma non era quella la parola. La società va così, che ci puoi fare? Non lo biasimavo. Lì dentro c’ero anch’io, che vagavo senza meta. Facevo parte dello spettacolo. Eppure quella prima sera, quando si è inginocchiato e ha ringraziato il nastro per la fortuna e il successo, mi sono sentita stranamente eccitata. Lui era sempre così pulito, ordinato e composto, quindi quella dimostrazione di debolezza era rara. Mentre camminava avanti e indietro per la camera da letto, strofinandosi con forza la faccia, mentre la risata si alzava e si abbassava e il sudore gli colava sulle guance come un riflesso, facevo versi d’incoraggiamento. Gli massaggiavo la schiena, in senso orario e antiorario, osservandolo come una spettatrice interessata. Dopo, placato dal rumore, si è sentito in dovere di spiegarmi le diverse forme di comicità, ripercorrendone la storia con entusiasmo. In quel momento, devo dirlo, mi sono sentita soffocare e ho pensato che sarei potuta morire.

Nei mesi successivi, lo schema si è ripetuto: restavamo a letto fino a sera, guardavamo vecchie commedie, ascoltavamo musica, facevamo sesso con pigrizia. Poi ci vestivamo e uscivamo. Seduta ai grandi tavoli di ceramica, mi sentivo una via di mezzo tra una cameriera e una bambina adottata in qualche paese indefinito del terzo mondo. Non riuscivo a cogliere la prestazione che mi veniva richiesta da lui e dai suoi amici, la maggior parte dei quali era in televisione o ci gravitava intorno. A questi tavoli c’era un uomo più anziano, che il mio ragazzo chiamava spesso il suo migliore amico e che come me era senza parole. Mi illudevo di leggere della solidarietà nei suoi sguardi verso di me. Probabilmente ero un po’ fatta, trovavo un senso nel nulla. Il mio ragazzo faceva spesso battute su quest’uomo – sulla sua relativa mancanza di successo, sui suoi investimenti immobiliari sbagliati – e lui rimaneva immobile, con un’espressione vuota, incassando senza reagire. Io rimanevo congelata, come se questo potesse proteggermi dall’umiliazione. Ogni tanto l’uomo sollevava il bicchiere verso di me, in un brindisi silenzioso.

Un pomeriggio, il comico ha tentato di mandarmi dal parrucchiere prima di cena. Il salone era pieno di donne abbronzate che si soffermavano sul mio cuoio capelluto e commentavano la mia posizione di privilegio. Mi avevano offerto una coppa di champagne e io soffiavo sulla superficie come una bambina. Mi sono alzata nel bel mezzo dell’operazione capelli. Ho guardato la mia mezza acconciatura allo specchio e ho detto: “Wow! È fantastico. Grazie, grazie mille”, e sono uscita. Mi aspettavo che la guardia giurata della sicurezza o qualcuno di simile mi fermasse alla porta, ma non è successo.

Beatrice Bandiera

Ho passato il resto della giornata a vagare su e giù per la strada ombreggiata e perfetta che per me e il mio ragazzo era come una casa. Volevo scoprire qualcosa per potermi sentire una del posto. In fondo, vicino alla stazione della metropolitana, c’era lo studio di una sensitiva. Era seduta su una poltrona massiccia con lo schienale alto e, a parte una tenda di velluto rosso che attraversava la stanza per separare l’ufficio dalla sua abitazione, non faceva nulla per sembrare mistica. Che sfacciataggine, ho pensato mentre le passavo davanti. Solo una persona di talento si sarebbe impegnata così poco per farsi pubblicità. Quella sera, a cena, nessuno ha detto niente sul mio insolito taglio di capelli. Dovevano aver deciso che non poteva essere un caso, perché nulla con il comico era casuale. Mi guardavano negli occhi e dicevano che stavo benissimo. Quando siamo rientrati dalla serata, il comico e io abbiamo scopato con freddezza, come se fossimo due oggetti costosi e scintillanti, come se io fossi qualcosa di sofisticato che lui poteva premere per ottenere le risposte giuste.

Dopo, mentre eravamo a letto, mi ha chiesto: “Cosa desideri più di ogni altra cosa?”.

“Essere amata”, ho detto, senza pensarci troppo. Ultimamente, mi ero stancata di tutta la messinscena che avevo costruito. Era patetica. “Sai, in Irlanda”, ho aggiunto, “non stavo bene”.

Giorno dopo giorno mi lasciava fingere di essere chiunque volessi, una singolare gentilezza. Raccontava versioni diverse del suo passato, l’unica costante era il modo in cui ne era uscito. In ogni versione c’era il nastro e sua madre che fissava nel vuoto con occhi spenti. Se individuava qualche somiglianza tra noi, non l’ammetteva. Mi accorgevo che non sapevo davvero come sarebbe andata. Non avevo avuto molti ragazzi. La maggior parte dei ragazzi che conoscevo a casa era terrorizzata da me, anche se quando ci andavo a letto si sentivano soddisfatti per poco tempo. Mi ricordo del ragazzo della mia città con cui uscivo quando è successo, mi portava in giro come se fossi in prestito, affascinante ma rimborsabile, come un abito a noleggio.

“Va meglio ora?”, ha chiesto il mio ragazzo. Non era stupido, ma viziato. Era come un uomo con mille mogli instancabili. C’erano persone che pianificavano i suoi pasti, che gli procuravano le conversazioni. Gli spezzettavano il mangiare, gli imboccavano le parole. A lui non restava altro che aprire la bocca.

“Forse”, ho risposto. “Credo di avere paura della morte”.

“Della sorte?”.

Beatrice Bandiera

Ci ho riflettuto. “Entrambe”.

Quella notte abbiamo ascoltato il nastro insieme fino all’alba, le tende chiuse, i nostri corpi che nell’oscurità diventavano indistinti. Sembrava un’intimità, o quanto di più vicino potessimo avvicinarci all’intimità. Il nastro lo calmava, placava il suo stato maniacale. Gli passavo le dita tra i capelli, lo rassicuravo, cercando di convincerlo che fosse normale, che chiunque l’avrebbe fatto se avesse avuto quel nastro. Era questo che desiderava più di tutto, più del sesso, più dell’amore: sentirsi dire che era normale, sentirsi normale. All’alba mi ha chiesto di leggere ad alta voce i commenti online su di lui, post assurdi e poco lusinghieri che lasciavano intendere che ormai era superato. Mentre leggevo aveva un’aria divertita, come se ascoltasse bizzarre teorie del complotto. Verso le otto del mattino gli ho sussurrato di addormentarsi, baciandogli le palpebre. Non era una cosa che avrei fatto normalmente. Era un gesto che non sapevo nemmeno di avere. In Irlanda l’avrei considerato sdolcinato, ma lì, tra le giornate di solitudine e le cene a base di centrifughe di frutta, mi sembrava appropriato.

Man mano che si avvicinava il giorno del ritorno in scena, diventava sempre più agitato e l’insonnia peggiorava. Neanch’io dormivo bene e vagavamo per l’appartamento, ognuno per conto suo, entrando e uscendo dalle stanze, ignorandoci come estranei. Quando ero sicura che dormisse, mi alzavo e bevevo un bicchiere di vino scadente, che aveva il solo pregio di essere alcolico. Mi ripetevo che stavo bene, che non ero mai stata così bene, ma era difficile crederci.

La sera in cui è andato in onda il suo spettacolo mi sono agghindata come al solito. Anche il semplice fatto di vestirmi mi metteva in confusione. Il comico mi aveva suggerito di esibire il corpo, ma a me sembrava sbagliato, un residuo di provincia. Ho scelto un abito impersonale e mi sono sentita come se mi fossi scelta da una vetrina.

Dal tavolo si alzavano risate sgradevoli. Il mio ragazzo era nella sua versione pubblica. La disperazione gli solcava il viso, gli artigliava le guance. Era lui, eppure non lo era. Era come rientrare in casa dopo che è stata svaligiata con discrezione. Alla sua sinistra c’era un giovane trentenne che continuava a dire di voler imparare una nuova lingua. Tutti i presenti concordavano che fosse un’idea eccellente, un modo per migliorarsi, per tenere la mente attiva.

“Trovati una ragazza straniera”, ha suggerito il mio ragazzo, “è l’unico modo per imparare”.

“Che lingua stai imparando da lei?”.

Dopo, mentre eravamo a letto, mi ha chiesto: “Cosa desideri più di ogni altra cosa?”. “Essere amata”, ho detto, senza pensarci troppo. Ultimamente, mi ero stancata di tutta la messinscena che avevo costruito. Era patetica

A volte succedeva. Parlavano di me, davanti a me. Mi sono voltata, fingendo di essere molto interessata alla tovaglia.

“La lingua della povertà”, ha risposto lui con un sorriso.

Con me ci andava piano, sentivo che le altre avevano sofferto di più, ma non lo faceva per riguardo nei miei confronti. Forse temeva di offuscare la sua immagine, che credeva conservassi dall’infanzia, quando era all’apice della fama. In realtà, non ne avevo nessuna: c’era un’unica scena sfocata di lui che cadeva, un miscuglio di espressioni imbronciate. Tornati a casa, ha guardato quell’episodio da solo, come se volesse punirmi per un’offesa immaginaria. Volevo chiedere scusa, ma non riuscivo fisicamente a pronunciarlo. Non dormivo da giorni. Quando si è chiuso in camera sua per ascoltare a ciclo continuo le risate, mi sono collegata al forum che seguiva la sua carriera. Scorrevo le sue vecchie foto in piedi – capelli lunghi, un finto timido – accompagnate dalle battute più caustiche, riportate sullo schermo. Prima di accorgermi che le mie dita si muovevano, prima ancora di riconoscere le parole, avevo lasciato un post dettagliato in cui dichiaravo che il comico non era divertente, che non lo era mai stato e c’era solo da sperare che il suo spettacolo fosse annullato così non ci avrebbe più torturato. Ho richiamato l’attenzione sul suo decadimento fisico. Forse ho anche fatto un’osservazione sulle sue facoltà mentali, che non era proprio da me. Ho pubblicato l’invettiva a nome di sua madre e ho preso due pasticche per dormire. Poi sono crollata sul divano, sedata dalla mia stessa bassezza.

Al mattino, dopo aver passato in rassegna le recensioni dello spettacolo, turbato, mi ha riletto ad alta voce il post.

“Incredibile”.

Ho spalancato gli occhi, innocente.

In metropolitana esaminavo le caviglie delle donne anziane, gonfie, solcate da grandi vene blu. Non vedevo l’ora di avere caviglie così. Mi avrebbero dato robustezza, uno stato che avevo sempre faticato a raggiungere

“Una persona davvero disturbata”.

“Un malato”, ha aggiunto. “Pieno di problemi”.

“Oh, certo”, ho concordato. “Molti problemi. Senza dubbio”.

Solo una volta il comico ha notato la mia reticenza a quei ritrovi. Mentre i suoi amici parlavano di spettacoli, di chi era in quale programma, degli ascolti di quello show, della quantità apparentemente infinita di spettacoli, io fantasticavo di essere all’aeroporto, di camminare ininterrottamente tra i gate di partenza, di curiosare nel duty free, di fare vari esercizi di respirazione al nastro bagagli, di assistere all’infinito fiume di valigie che si riversava fuori. Non erano visioni fantasiose. Non avrebbero avuto un alto indice di ascolto su nessun canale. Tuttavia, quello che mi succedeva in testa era impressionante: una mia esperienza personale di realtà aeroportuale, con tanto di biglietto di sola andata.

“Sei una strana personcina fantasmatica”, mi ha detto in taxi il comico, con tono deciso, mentre rientravamo a casa. Era autunno e stavamo insieme da cinque mesi. Da un po’ sentivo che il nostro amore si stava deteriorando. Io non aiutavo, restando sveglia tutta la notte e lasciando lunghi messaggi anonimi sul forum dedicato a screditare il mio ragazzo. Lì avevo stretto molte amicizie, creato legami significativi. C’erano persone simpatiche.

“Non so di cosa stai parlando”, ho risposto.

“Alle cene non dici mai una parola”.

Forse desideravo ancora che avessimo una comunicazione aperta. Non riuscivo a lasciarlo andare. Non avrei mai potuto lasciarlo andare. Non sapevo come fare

“Dico tutto con gli occhi”.

“Dimmi una tua opinione”.

Siamo piombati nel silenzio.

Tornati all’appartamento, ha elencato i sistemi che aveva elaborato per impedirsi di ascoltare il nastro. Poi si è chiuso in bagno, ha aperto i rubinetti e ha ascoltato il nastro.

Sapevo che si scriveva con altre donne online. Non si preoccupava neanche di cancellare la cronologia del browser. Per passare il tempo, rovistavo tra i suoi vestiti. Se li era fatti consegnare da un’azienda che si occupa di “vestire l’uomo moderno”. Tutto si basava sulla compilazione di un questionario trasversale sull’infanzia, su quando avevi perso le illusioni eccetera. Aveva cercato di coinvolgermi. “Com’è stata la tua infanzia?”. “Non bella”, ho scritto e gli ho riconsegnato il questionario. Mi ha detto che non mi meritavo dei vestiti e probabilmente aveva ragione.

Nell’armadio ho trovato il suo cappotto preferito e ci ho infilato una stampa del post più atroce del forum. Ci ho anche messo un augurio, trovato nei biscotti della fortuna che avevamo mangiato prima. Forse desideravo ancora che avessimo una comunicazione aperta. Non riuscivo a lasciarlo andare. Non avrei mai potuto lasciarlo andare. Non sapevo come fare. Una parte di me era disgustata per come mi trattava e un’altra gli era profondamente grata. C’erano due versioni di me. Quella che restava a guardarlo con altre donne, avvicinandosi molto, ridendo, e poi dopo, in taxi, quella che lo ascoltava obiettare, discutere, dirmi che ero una fatica, una cazzo di fatica. La me che sognava di salire in cima, prendere un solo respiro e cadere a terra come una camicia fatta con il tessuto più economico e scadente. Poi l’altra me, che camminava spedita, decisa, lungo il viale alberato.

Era un inverno freddo e la maggior parte dei giorni restavo in casa. Mi truccavo e mi osservavo allo specchio con apprensione, come se fossi un animale capace di movimenti insoliti e improvvisi. Mi esercitavo con diversi accenti, per far pensare ai vicini che ci fosse un viavai di persone nella casa accanto, un mix culturale, anziché solo la ragazza di un comico. Ho cominciato a guardare il programma, che con grande irritazione del mio ragazzo era stato spostato in una fascia oraria diurna. Sullo schermo interpretava un professore: il gilet abbottonato male, il volto velato dal dolore per lo stato del mondo, tutte le sue azioni, romantiche e no, esilaranti e generose. I dialoghi erano pessimi e mi dava fastidio sentirgli pronunciare quelle battute. Mi sentivo in qualche modo coinvolta, come una donna che manda il marito in guerra senza dargli nemmeno una parola di conforto. In televisione, il mio ragazzo era il re di un piccolo regno inutile. Gesticolava davanti alla scenografia come se la stesse manovrando. Se metteva in dubbio la moralità di un personaggio, nell’episodio successivo questo si dimostrava dissoluto e indegno. Quando indicava il cielo e diceva: “Sembra proprio che nevicherà!”, subito cadeva della neve, ricoprendo il terreno su cui stava.

Ho preso il nastro dalla camera da letto del comico e l’ho esaminato. Non ero mai rimasta sola con lui. La risata era un suono pieno, l’allegria di un pubblico d’altri tempi, che faceva sul serio

Un pomeriggio, davanti alla penosità dello spettacolo, mi sono nascosta nell’armadio del corridoio per sentirmi al sicuro. Volevo provare come ci si sente a essere chiusi dentro, così mi sono arrampicata al suo interno. Non si stava così male, nell’armadio. Era sicuramente il posto giusto per me. Il comico aveva licenziato la domestica perché sospettava una “manomissione del nastro”, così ora avevamo sostituzioni saltuarie, schiere di ventenni che entravano e uscivano subito, angosciate dall’appartamento. Vivevamo in una sporcizia inamovibile. Non era proprio inamovibile, la spostavamo a calci, senza mai liberarcene del tutto. Quel giorno, quando mi sono nascosta nell’armadio, mi ha trovato la domestica, spalancando la porta e scrollando le spalle come a dire: “Ecco, un’altra ricca pazza”. Non l’ho corretta. Non le ho detto che ero povera ma con una personalità decente, una bella personalità, che non mostravo quasi a nessuno. La sua convinzione che fossi una pazza sembrava darle forza. Prima di arrivare in città, non avevo mai visto una domestica. Non era una cosa con cui ero cresciuta. Me le immaginavo tutte pacchiane ed evangeliche, ma lei era sovrappeso, anziana e sembrava che non le importasse nulla dell’ordine. Non mi piaceva l’idea che frugasse tra le nostre cose, che tirasse fuori i sacchi della nostra spazzatura privata, che toccasse i dorsi dei libri finti sugli scaffali. Non sono una persona lenta, ma mi ci sono voluti diversi minuti di osservazione ravvicinata per collegare la domestica alla sensitiva di quartiere. Ho riconosciuto il suo sguardo lontano e ultraterreno e le sue caviglie tozze e venate.

“Non sei una domestica”, le ho detto, con una mano che entrava e usciva da un sacchetto di Cheetos, “sei una sensitiva”.

Mi ha guardato.

“È difficile vivere una doppia vita?”.

Volevo che rispondesse qualcosa di stupefacente come “dimmelo tu” o “viviamo tutti una doppia vita”.

Si è creato un silenzio denso. “Per favore, lasciami una recensione sul sito”, ha detto alla fine. Quella sera, sul suo sito, ho selezionato il voto cinque stelle e le stelle dorate hanno invaso lo schermo una a una.

Quando il mio ragazzo è tornato, ero seduta al mio solito posto alla finestra, a studiare le persone del palazzo di fronte, vite oscure e imperscrutabili.

La sera in cui è andato in onda il suo spettacolo mi sono agghindata come al solito. Anche il semplice fatto di vestirmi era fonte di confusione. Il comico mi aveva suggerito di esibire il corpo, ma a me sembrava sbagliato, un residuo di provincia

“Avevi delle finestre quando vivevi in quel posto?”, mi ha chiesto, con prudenza.

“Non così pulite”, ho risposto, picchiettando due dita sulla lastra di vetro inferiore. “Più piccole”.

La settimana successiva al nostro incontro, sono passata davanti allo studio della sensitiva almeno due volte al giorno. Lei guardava imbronciata davanti a sé, masticando una gomma, sfogliando pigramente le carte, scartando con disinvoltura le sorti sul tavolo pieghevole. Era come se non ci fosse stato nessun contatto, nessuna recensione a cinque stelle. Non mi ha mai riconosciuto.

Quando uscivamo, mi godevo i guizzi di preoccupazione che attraversavano il volto dei suoi amici di turno. Dovremmo conoscerla? Mi aggiustavo la gonna e li guardavo con aria piatta e indifferente, mentre i miei lineamenti si confondevano con quelli delle donne che avevo davanti. “Sono la nuova”, dicevo, come se fossi davanti a una classe. Quelle sere monetizzavamo la mia normalità fino a farla diventare valuta corrente. “È così normale”, lo sentivo ripetere, “è questo che mi piace di lei”. Così non ho detto nulla della settimana che avevo trascorso in ospedale, incapace di riconoscere il mio volto, una settimana in cui mi sembrava possibile che non avrei mai più parlato con un altro essere umano normale. In ogni ristorante ci facevano sedere in prima fila e se il comico chiedeva la neve, la neve cadeva dal soffitto.

Con il tempo, le cose che faceva il mio ragazzo sono diventate prevedibili: stare fuori fino a tardi o non tornare affatto o tornare a casa puzzando di locali del centro. Se avessi mai parlato al telefono con mia madre, so che le avrebbe definite “delle prove”. Avrebbe usato l’espressione “donne da quattro soldi”. Come tutti, aveva delle frasi che usava spesso. Volevo chiedergli: “Frequenti i locali del centro?”, ma non sapevo nemmeno dove fossero. Potevano essere in centro a nord o in centro a sud. Forse erano nel mezzo. D’altra parte, qualsiasi posto è squallido se decidi che è così.

Aveva anche spostato il nastro in camera da letto e mi aveva costretto a dormire sul divano. Diceva che ascoltare le risate di notte lo confortava. Migliorava la sua routine. “Quale routine?”, ho chiesto. “Scusami”, ha risposto, facendo una pila di coperte e cuscini. Ho fatto una visita per i miei problemi di sonno. Era necessario. La dottoressa mi ha guardato sotto la lingua con una lucina e ha fatto altre operazioni tecniche. Una settimana dopo mi ha informato che avevo diverse malattie sessualmente trasmissibili, alcune leggere, ma anche altre gravi. Ho chiesto se le avessi prese tutte insieme o in momenti diversi. Mi ha risposto che non era in grado di dirlo, che la sua competenza arrivava solo fino a un certo punto. Mi ha dato le ricette e un lecca-lecca. Quando ho chiesto spiegazioni al mio ragazzo, mi ha ignorato, mi faceva fare la doccia due volte al giorno, ripetendo le fiacche battute che proponeva a sua madre quando era agli sgoccioli. Se gli parlavo del nastro, di come le risate mi spaventavano di notte, sussurrava: “Non sopravvivremo senza quella macchina” e chiudeva gli occhi. Sapeva essere melodrammatico. Su quel divano provavo un terrore incontrollabile, come se la vita mi stesse sfuggendo di mano, scivolando, come una gag comica. Ho disegnato uno schizzo dell’appartamento e l’ho spedito a mia madre con un biglietto che diceva: “Sono molto felice qui”. Per molti versi, mi mancava lei, il suo modo di vedere il mondo. Avrebbe definito il mio soggiorno sul divano come “una piccola vacanza”.

Con il tempo, le cose che faceva il mio ragazzo sono diventate prevedibili: stare fuori fino a tardi o non tornare affatto o tornare a casa puzzando di locali del centro. Se avessi mai parlato al telefono con mia madre, so che le avrebbe definite “delle prove”

Le sere in cui il mio ragazzo spariva, andavo in farmacia a prendere delle cose. Cose americane che mi rendevano felice: strisce per sbiancare i denti, caramelle colorate, antidolorifici, pasticche per dormire. Sulla strada, non lontano dallo studio della sensitiva, c’era un negozio a forma di fienile che aveva tutto quello che mi serviva. Trascorrevo ore di vergogna sotto la luce gialla. La vista di una bottiglia di senape e di una di ketchup affiancate spesso mi commuoveva fino alle lacrime. Sembrava tutto così patriottico, come la bandiera che sventolava dalla finta università del comico.

Una sera tranquilla, mentre lei scansionava i miei articoli, ho rivolto la parola alla ragazza del banco. Era giovane e mi sono chiesta se fosse andata all’università, se avesse un padre che si prendeva gioco della sua intelligenza, se avesse un fidanzato che la andava a prendere al lavoro. Sono andata avanti così per un po’ prima di dire: “Mi piace questo negozio”.

“È ok”. Ha esaminato le mie compresse, osservando attentamente la quantità e il dosaggio. “Devi fare un viaggio lungo e stressante?”.

Ho pensato alla mia passeggiata dal televisore alla credenza.

“Sì”.

Ha continuato a scansionare. La guardavo. “Probabilmente vuoi essere famosa”, le ho detto. “Tutte le ragazze giovani lo vogliono, ma fattelo dire, il mio ragazzo è famoso e non ne vale la pena”.

Ha notato il mio cappotto logoro, i miei capelli non lavati. Le persone sanno essere molto critiche con gli occhi.

Beatrice Bandiera

“Ha dei problemi su internet”, ho proseguito, “in rete sono cattivi”.

Non c’erano più distanze fra noi.

“Chi è?”.

Le ho detto il suo nome.

“Non ti emozionare”, ho aggiunto, “la sera ascolta un nastro di risate, sta diventando molto strano. Crede che questo lo renda divertente. È una fantasia. È uno che fantastica”. Ho alzato gli occhi in modo esagerato. “Ha molte cose che non vanno nel profondo dell’anima. Hai mai incontrato qualcuno così? E credo che vada a letto con altre donne. Potresti essere una di quelle donne. Lo vorresti? Cioè, se è una cosa che desideri, andare a letto con qualcuno di famoso e raccontarlo ai tuoi amici”.

È rimasta in silenzio per un po’. “No, grazie”.

“Bene”, ho risposto, “grazie per il servizio”. Mi sono avviata all’aria aperta con il sacchetto di plastica che aveva dentro le mie nuove cose. Per strada mi sono soffermata a pensare: “Non sarò una persona che abbandona il prossimo. No, non è il mio stile”. Sono tornata nel negozio e ho affrontato la com­messa.

Beatrice Bandiera

“Scusami”, ho detto, “hai qualcuno che ti accompagni a casa? Questo è un quartiere pericoloso”.

Ha alzato lo sguardo. “Questa è probabilmente la strada più sicura della città, forse la seconda”.

“Capisco”, ho risposto, piena di premura. “Mi dispiace. Non mi so davvero orientare”.

Mentre rientravo ho immaginato che la ragazza avrebbe venduto la storia ai famelici giornali scandalistici, guadagnando un po’ di denaro facile e portando i suoi amici a bere qualcosa, brindando in mio onore. In cucina ho disfatto le borse e diviso le pasticche tra quelle che avrei preso subito, quelle che avrei preso più tardi e quelle che avrei preso in caso di emergenza relax. Ho preso il nastro dalla camera da letto del comico e l’ho esaminato. Non l’avevo mai preso da sola. La risata era un suono pieno, l’allegria di un pubblico d’altri tempi, che faceva sul serio. Ho immaginato di strappargli le budella e di lasciare le interiora sul tavolo della cucina. Volevo sapere come mi sarei sentita dopo. Ma quella sera non ho distrutto niente. Ho spento il nastro e sono rimasta per un po’ a contorcermi sul divano.

Alle due di notte, il citofono ha suonato. Non sapevo bene cosa mi aspettassi. Una voce dolce e confortante all’altro capo che mi dicesse di non avere paura? Qualcuno con cui avere un momento di commozione? Dio in persona? “Salve”, ho detto. Ho riconosciuto subito i toni affannati della sensitiva. E mi ha detto tutto quello che mi sarebbe successo. Non era terribile, ma era vuoto. Era un lungo lampo di vuoto. Non avrei dovuto sorprendermi. Al citofono, nelle prime ore del mattino, io e la sensitiva abbiamo pianto, provato rammarico e offerto le più sincere condoglianze alla mia vita.

E arrivata l’estate ed ero in piedi, nuda, davanti al condizionatore, percepivo i suoi sapienti soffi d’aria su tutto il corpo. Ho avuto il condizionatore in dono da un tizio del forum che ha postato un messaggio sconclusionato sul fatto che stava lasciando la città. Quando l’ho ritirato, ho fatto finta di essere una donna normale senza legami con il comico. Ogni volta che entravo in un appartamento, indipendentemente dalla dimensione o dalla forma, mi sentivo triste per tutto quello che avevo perso, per tutto ciò che non potevo fare.

Nello show aveva una nuova ragazza. Era stata una stagione noiosa e aveva bisogno di qualcuno su cui sfogarsi. La guardavo ogni giorno, sbirciando con circospezione dal mio posto nell’armadio, con la bava alla bocca, come se tutta l’acqua volesse lasciare il mio corpo. Avevano cercato di renderla un personaggio a tutto tondo, una collega professoressa, ma aveva alcuni aspetti che non potevano essere contenuti: il seno, le labbra. Immaginavo che venisse da Miami o da Los Angeles o da uno di quei posti, che avesse visto molti soffitti. Volevo degli amici per poterla imitare, per chiamarla “Candy”. Per sentirmi bene. Un pomeriggio, tornando a casa, li ho sentiti fare sesso. Non era un segreto. Era previsto che sentissi. Sono rimasta nel corridoio, a cercare di indovinare la posizione. Poi siamo usciti. Ci siamo vestiti tutti e tre e siamo usciti. In taxi, lui le ha detto che era la prima persona a cui aveva fatto sentire il nastro. Sono andata nel bagno del ristorante per vomitare, ma non ci sono riuscita. Sul pavimento del bagno ho sentito tutto il corpo rimpicciolirsi, come se potesse entrare in una valigia, essere messo su un nastro dei bagagli.

A cena ero seduta accanto a una donna anziana e signorile che il mio ragazzo chiamava la sua agente. Mi ha consegnato a lei. Lei ha posato lo sguardo su Candy e su di me, dicendo che era bellissimo vedere delle ragazze che sapevano come comportarsi. Avrei voluto che Candy facesse qualcosa che confermasse le mie scarse aspettative su di lei – mostrare i denti, fare una smorfia – ma lei guardava verso la porta. Ho ritirato le mie cento telefonate immaginarie ai miei cento amici immaginari. L’agente mi ricordava la sensitiva. Anzi, in un modo che non so spiegarmi, era lei la sensitiva, proprio lei, così quando mi ha preso la mano e ha detto che mi avrebbe aiutato, mi sono fidata. Mi ha fatto venire voglia di tornare bambina, piccola e pulita.

“Ora”, ha detto, “scommetto che ti piacerebbe avere una parte nello show”.

Una settimana dopo, mi trovavo sul set, nel vasto labirinto della finta università, e sentivo il peso di uno spazzolone in mano. Su una gruccia accanto a me c’era un costume da cameriera avvolto nella plastica. Il costume era come una domanda a cui non avevo risposta. Mi chiedevo come avrei fatto a indossarlo. Come si fa normalmente, presumo. Lo avrei indossato dalla testa. Poi il collo. Ma cosa sarebbe successo dopo?

Ho fermato una donna che armeggiava con le cuffie. “Posso usare il bagno?”, ho chiesto a bassa voce. Lei ha annuito. Ma non sono andata in bagno.

Sono uscita come se stessi andando a casa. Ma non sono nemmeno andata all’appartamento. Ho continuato a camminare, una figura solitaria che attraversava il deserto della città. Ho pensato a tutte le cose che avevo dimenticato di me, provavo a ricordare. Dopo poco ero in metropolitana e una donna anziana, con le caviglie delicate e piene di macchie marroni che spuntavano da sotto la gonna, come sensazioni che non riuscivo a descrivere, mi ha sorriso. Ho ripensato al volto di mia madre e ho provato a immaginarlo. Poi sono scesa dalla metropolitana e sono riemersa alla luce. E ho pensato che mi sarebbe piaciuto un po’ di maltempo: tuoni, lampi, neve. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto il brutto tempo e la neve è scesa dal cielo.

Nicole Flattery è nata a Kinnegad, nella contea Westmeath. Ha scritto per giornali come London Review of Books, The Stinging Fly, The Guardian e Sight and Sound. Il suo romanzo Nothing special e la raccolta di racconti Show them a good time saranno pubblicati in Italia da La nave di Teseo. Il titolo originale di questo racconto è Track, ed è uscito su The White Review, un giornale che pubblica testi e arti visive. La traduzione è di Sarah Victoria Barberis.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati