Da quattro mesi la città di Rafah, addossata al confine con l’Egitto, si è gradualmente trasformata in un rifugio per la maggior parte degli abitanti della Striscia di Gaza in fuga dai bombardamenti israeliani. È ammassata qui più della metà della popolazione del territorio, 1,3 milioni di palestinesi secondo le Nazioni Unite, cinque volte di più rispetto a prima della guerra.

Alla vigilia di una possibile offensiva di terra, tutti gli occhi sono puntati su questa località del sud della Striscia, dove continuano a riversarsi gli sfollati da Khan Yunis. Crescono i timori della popolazione, che non ha più un posto dove andare quando piovono le bombe, e i contrasti di Israele con il suo vicino egiziano, oltre che con l’alleato statunitense, che sta intensificando le pressioni su Tel Aviv per un cessate il fuoco.

Per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’offensiva annunciata il 7 febbraio ha l’obiettivo di sconfiggere quello che lui descrive come l’ultimo bastione di Hamas nella Striscia. “La vittoria è a portata di mano. Prenderemo gli ultimi battaglioni terroristi di Hamas e la loro roccaforte Rafah”, ha ribadito in un’intervista all’emittente statunitense Abc News il 10 febbraio.

Il fossato si allarga

Queste affermazioni arrivano mentre aumentano le pressioni internazionali sullo stato ebraico perché modifichi il modo in cui sta conducendo la guerra, o la sospenda del tutto. “L’esercito ha già invaso Khan Yunis e non è riuscito a restituire ‘un’immagine di vittoria’, come poteva essere il ritrovamento degli ostaggi o di Yahya Sinwar (il leader di Hamas)”, osserva l’analista politico palestinese Khalil Sayegh. “Israele ora sostiene l’idea che Rafah sia la roccaforte di Hamas, la stessa espressione usata in passato per la zona nord di Gaza e poi di Khan Yunis”.

In questo modo Netanyahu spera di guadagnare terreno sul piano interno e di placare la collera che infuria nel paese. Secondo l’annuncio diffuso l’11 febbraio dalle Brigate al Qassam attraverso il loro canale Telegram, gli attacchi israeliani sul territorio palestinese nelle 96 ore precedenti avevano ucciso due ostaggi e ferito gravemente altri otto. Nel frattempo, quella stessa mattina i familiari degli israeliani sequestrati manifestavano a Gerusalemme davanti alla knesset, il parlamento israeliano, per protestare contro i ritardi nel raggiungere un accordo per la liberazione dei loro cari.

Il malcontento rischia di aumentare se Tel Aviv farà l’offensiva su Rafah. Secondo il canale televisivo Al Aqsa citato dall’agenzia Reuters, un alto dirigente di Hamas ha avvertito che “qualsiasi attacco dell’esercito di occupazione contro la città metterebbe a repentaglio i negoziati” sugli ostaggi detenuti a Gaza.

Il 7 febbraio il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha dichiarato che un cessate il fuoco e un accordo tra le parti per la liberazione degli ostaggi restano possibili anche dopo il rifiuto delle rispettive proposte. Due giorni più tardi al Cairo si sono conclusi i nuovi colloqui tra rappresentanti del Qatar, dell’Egitto e di Hamas, e il 13 febbraio sempre nella capitale egiziana il direttore della Cia Bill Burns ha incontrato alcuni rappresentanti politici del paese, oltre a funzionari israeliani e del Qatar, in vista di un rilancio delle trattative.

Secondo Charles Dunne, ricercatore associato all’Arab center di Washington, “Burns si concentrerà probabilmente sull’obiettivo a breve termine di stabilire tempi e durata di un cessate il fuoco e sulla liberazione degli ostaggi, ma non sarebbe una sorpresa se tra i principali argomenti trattati ci fosse la questione dell’offensiva su Rafah e l’eventualità di un trasferimento forzato degli abitanti della Striscia verso l’Egitto”.

Infatti, anche se il 9 febbraio il primo ministro israeliano ha chiesto all’esercito di formulare un “piano combinato per allontanare” i civili e “distruggere” il movimento islamista in città, si fatica a prendere sul serio queste parole. Da alcuni giorni l’amministrazione Biden sta alzando i toni contro Tel Aviv, insistendo sui pericoli per gli abitanti di un’operazione simile. Secondo un alto funzionario dell’amministrazione Biden citato l’11 febbraio da Nbc News, “tra Stati Uniti e Israele il fossato si sta allargando”, in particolare riguardo a un’eventuale offensiva a Rafah. L’8 febbraio Joe Biden aveva giudicato “eccessiva” la “risposta” israeliana all’incursione di Hamas del 7 ottobre. Netanyahu avrebbe quindi sottolineato la necessità che i civili lascino le zone di combattimento, così da dare una parvenza di garanzia al potente alleato statunitense.

In particolare, nella sua intervista ad Abc News il premier israeliano ha affermato che le zone sgomberate a nord di Rafah potrebbero essere usate come luoghi sicuri per gli abitanti, ma diversi osservatori dubitano che uno scenario simile sia realistico visto che le infrastrutture sono distrutte. “Fino a questo momento, Netanyahu non mostra nessun segno di arretramento”, sottolinea Charles Dunne. “Si è presentato come l’unico leader in grado di tenere testa agli Stati Uniti, cosa che dal suo punto di vista rappresenta un vantaggio politico”, continua il ricercatore riferendosi alla linea adottata dal primo ministro israeliano, che si oppone alla maggior parte delle richieste statunitensi, come la soluzione dei due stati, per conquistare un maggior consenso interno, soprattutto tra l’elettorato di destra.

Tuttavia, anche se le sue decisioni sono guidate innanzitutto da calcoli politici, Netanyahu potrebbe trovarsi in una posizione delicata che rischia di far arrabbiare l’Egitto e gli altri stati arabi.

Il Cairo teme che il vero obiettivo dell’offensiva a Rafah sia costringere i palestinesi di Gaza a varcare la frontiera del Sinai. L’Egitto potrebbe non essere in grado di gestire un simile afflusso. Le conseguenze dell’annuncio israeliano si sono già fatte sentire. Secondo due funzionari egiziani e un diplomatico occidentale citati dall’Associated Press, l’11 febbraio l’Egitto avrebbe minacciato di sospendere il trattato di pace del 1979 con lo stato ebraico – considerato uno dei pilastri della stabilità regionale – se saranno inviate truppe nella città nel sud dell’enclave. Le fonti citate hanno inoltre avvertito che i combattimenti in corso potrebbero comportare la chiusura della principale via di accesso per gli aiuti umanitari nella Striscia.

Secondo due fonti egiziane citate l’11 febbraio dal Times of Israel, nelle ultime due settimane l’Egitto avrebbe inviato una quarantina di carri armati e mezzi blindati nel nord del Sinai, con l’obiettivo di rafforzare la sicurezza alla frontiera, un segnale delle preoccupazioni del paese. Charles Dunne suggerisce che, nonostante le proteste egiziane, “non sappiamo se Il Cairo accetterà di accogliere definitivamente centinaia di migliaia di abitanti di Gaza costretti ad attraversare il confine in cambio di un sostanziale alleggerimento del debito e una nuova iniezione di aiuti”, uno scenario già evocato da diversi mezzi d’informazione.

Altri osservatori continuano a scommettere sul fatto che l’Egitto terrà chiusa la frontiera, nonostante gli appelli della maggioranza della popolazione, molto vicina alla causa palestinese. “Gli egiziani hanno imparato bene la lezione del 1948, e cioè che se i rifugiati entrano non saranno più autorizzati a tornare indietro”, spiega Khalil Sayegh. “È evidente che non sappiamo dove andranno i palestinesi e che nella Striscia di Gaza non c’è un luogo pronto ad accogliere tante persone”. ◆ fdl

Dall’Egitto
I timori del Cairo

I dirigenti della Cia e del Mossad (i servizi segreti statunitensi e israeliani) hanno incontrato i rappresentanti politici di Egitto e Qatar il 13 febbraio al Cairo per discutere la possibilità di una tregua nella Striscia di Gaza. Da quando Israele ha annunciato di voler lanciare un’offensiva su Rafah, la città nel sud della Striscia dove sono rifugiate più di un milione di persone, sono aumentate le pressioni internazionali per raggiungere un accordo che comprenda un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.

In particolare sono cresciute le tensioni tra Israele e il vicino Egitto, con cui confina Rafah. Preoccupato che centinaia di migliaia di profughi possano riversarsi sul suo territorio, Il Cairo ha minacciato di sospendere il trattato di pace tra Egitto e Israele, che dal 1979 contribuisce a garantire la stabilità nella regione. “I crimini israeliani superano tutti i confini”, titola Al Ahram, il principale quotidiano egiziano filogovernativo, citando fonti militari secondo cui l’invasione di Rafah sarebbe una “minaccia alla sicurezza nazionale”.

Il sito di opposizione Mada Masr riferisce che nelle ultime due settimane l’Egitto ha rafforzato la frontiera con la Striscia di Gaza, inviando truppe e circa quaranta carri armati. Inoltre ha fortificato l’area con muri di cemento armato sormontati da filo spinato. “A intervalli regolari si costruiscono muri di mattoni anche dietro la barriera d’acciaio che scorre dal valico di Rafah lungo il confine con la Palestina e fino alla costa mediterranea”.

Secondo il New York Times, Il Cairo teme che i rifugiati palestinesi “irrequieti e amareggiati” lancino attacchi contro Israele dal territorio egiziano, provocando la dura reazione di Tel Aviv, oppure che si uniscano ai ribelli del Sinai che l’esercito egiziano combatte da anni. Inoltre c’è la paura che Hamas possa estendere la sua influenza, alimentando la militanza islamista. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati