Avrebbe dovuto essere un momento di unità contro uno scenario d’orrore.

Il 13 ottobre, nel corso di una partita di qualificazione al campionato europeo di calcio del prossimo anno, disputata a Konya, nel centro dell’Anatolia, le squadre di Turchia e Islanda si trovavano in piedi, a testa bassa, per un minuto di silenzio in ricordo delle 102 persone morte nell’attentato ad Ankara, tre giorni prima.

Ma alcuni settori del pubblico hanno cominciato a fischiare e urlare slogan e “Allahu akbar” (Dio è grande). Invece di ricompattare il paese, il momento ha evidenziato le feroci divisioni in seno alla Turchia.

Gli attentati, attribuiti dal governo al gruppo Stato islamico, avevano come obiettivo la coalizione filocurda del Partito democratico dei popoli (Hdp), attivisti di sinistra e sindacalisti che si erano riuniti per una manifestazione contro i combattimenti in corso, nel sudest della Turchia, tra l’esercito e i ribelli del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).

Si è trattato dell’attentato più grave nella storia della Turchia ma, invece di unire il paese, ha approfondito le contrapposizioni. La vittoria calcistica della Turchia sull’Islanda, che ha permesso la qualificazione al campionato, è stata eclissata dal livore emerso nello stadio di Konya.

“Non abbiamo un cuore che batte per le vittime di Ankara e delle labbra in grado di tacere? Cosa ci vuole per rispettare una persona che è morta? Siamo così estranei a questi sentimenti?”, ha scritto l’ex allenatore della nazionale Mustafa Denizli sul giornale Hürriyet.

La Turchia, un paese della Nato e candidato all’ingresso nell’Unione europea, rischia di scivolare in quel genere di conflitto etnico e religioso che ha lacerato, al di là della sua frontiera meridionale, l’Iraq e la Siria. Alcuni analisti, preoccupati, ritengono che la Turchia stia cominciando a somigliare ai suoi vicini.

“Ricordiamo sempre più la Siria o un paese del Medio Oriente che un paese europeo”, ha dichiarando il navigato analista Cengiz Çandar.

La Turchia era vista come un pilastro di stabilità. Un decennio di governo islamista moderato aveva cementato dei forti legami con l’occidente

I funzionari turchi rifiutano simili paralleli. La Turchia è una democrazia stabile, affermano, e non è l’unica a patire le conseguenze della guerra in Siria: anche l’Unione europea ne soffre.

Fino al 2013, la Turchia era vista come un pilastro di stabilità. Un decennio di governo islamista moderato aveva cementato dei forti legami con l’occidente e la sua influenza in Medio Oriente.

Ma tutto ha cominciato a cambiare nel giugno del 2014 quando le città laiche della Turchia occidentale e costiera hanno scatenato delle proteste contro quello che ritenevano essere il crescente autoritarismo del governo del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.

Erdoğan ha represso le manifestazioni e lanciato un giro di vite contro la stampa. Ha cominciato a mettere sotto il suo controllo il potere giudiziario e le forze di sicurezza dopo che dei magistrati avevano aperto delle inchieste su presunti casi di corruzione tra i suoi ministri e familiari, denunciando l’esistenza di un complotto guidato dall’estero per rovesciarlo.

Eletto presidente nel 2014, Erdoğan ha oltrepassato i limiti della sua carica, che secondo la costituzione dovrebbe essere imparziale, cercando di far ottenere al Partito della giustizia e lo sviluppo (Akp) da lui fondato, di orientamento islamista, una maggioranza parlamentare sufficiente a far passare la Turchia da un sistema parlamentare a uno presidenziale.

Gli elettori turchi si sono opposti alla prospettiva di un potere in mano a un solo uomo e, alle elezioni generali del giugno del 2015, l’Akp ha perso la maggioranza per la prima volta dal 2002.

Dopo alcune sbrigative trattative per formare una coalizione, Erdoğan ha indetto nuove elezioni per il 1 novembre.

Da allora l’atmosfera politica turca, da sempre polarizzata, è diventata irrespirabile.

I primi disordini

Anche prima delle elezioni di giugno si erano verificate decine di attacchi a uffici e manifestazioni elettorali dell’Hdp, con il risultato di riunificare la minoranza curda della Turchia e ottenere l’approvazione di molti turchi laici, liberali e di sinistra.

L’Hdp ha agilmente superato lo sbarramento del 10 per cento necessario per entrare in parlamento. I suoi ottanta seggi, provenienti da un’area che prima pendeva verso l’Akp, ha lasciato il partito al potere con 258 deputati sui 550 totali nell’assemblea nazionale, 18 meno del numero necessario anche solo per una maggioranza semplice. Mai Erdoğan era stato così lontano dalla possibilità di ottenere una presidenza in grado di governare.

La situazione è bruscamente peggiorata a luglio quando un attentatore suicida del gruppo Stato islamico ha ucciso 34 tra curdi e attivisti a Suruç, una città appena prima del confine con la città curda siriana di Kobane. L’attacco ha infiammato il sudest della Turchia, mettendo a repentaglio un cessate il fuoco di due anni con il Pkk.

I curdi, non solo i ribelli, e molti oppositori turchi di Erdoğan hanno accusato il governo di complicità, un’accusa che il governo ha respinto.

Quando il Pkk ha risposto uccidendo due poliziotti, Ankara ha lanciato una campagna aerea oltre il suo confine meridionale, prendendo di mira il Pkk nel Kurdistan iracheno.

È diffuso il sospetto, all’interno della Turchia e tra i suoi alleati occidentali che, riprendendo la guerra contro il Pkk, Erdoğan stia cercando di conquistare l’elettorato nazionalista e spingere nuovamente l’Hdp sotto la soglia del 10 per cento. Un risultato forte dell’Akp permetterebbe a Erdoğan di portare avanti i suoi progetti di creazione di una presidenza sul modello francese, con pochissimi contrappesi.

Erdoğan ha negato le accuse dell’opposizione di provocare deliberatamente le rivolte. Il governo sostiene di aver lanciato degli attacchi aerei contro il Pkk a luglio in risposta all’aumento di attacchi contro le forze di sicurezza.

Il governo turco nega di sostenere, tacitamente o in altra maniera, i simpatizzanti dello Stato islamico

Alcuni analisti sostengono che l’attentato di Suruç sia stato la conseguenza inevitabile della politica del governo nei confronti della Siria. La pratica di consentire ai volontari jihadisti di attraversare il confine per combattere in Siria ha permesso un fiorire di simpatizzanti dello Stato islamico in Turchia.

Anche quando la stampa ha denunciato la presenza di cellule terroristiche in città come Adiyaman, i provvedimenti presi sono stati blandi. Il governo turco nega di sostenere, tacitamente o in altra maniera, i simpatizzanti dello Stato islamico, o il fatto che non ci siano state adeguate indagini in seguito agli attentati.

“A troppi attacchi contro l’Hdp non fanno seguito le dovute investigazioni”, sostiene Hakan Altinay, del Brookings institute di Washington. “Il contratto sociale si è rotto… Questa è la chiave che spiega il senso di alienazione (dei curdi). Se le cose andranno avanti così, il tessuto sociale finirà in brandelli”.

Sinan Ulgenr, un ex diplomatico che guida l’istituto di ricerca liberale Edam a Istanbul ed è visiting fellow alla Carnegie foundation di Bruxelles, ha dichiarato che la risposta del governo agli attentati è stata inadeguata: “Finora il governo è stato incapace di ottenere una giustificazione convincente sul perché non è riuscito a effettuare correttamente le indagini e ad assumersi la responsabilità per la nostra libertà e la nostra sicurezza”.

“La Turchia è nel caos e le fiamme stanno inghiottendo tutti quanti”, ha dichiarato Ulgen, riferendosi alle ricadute della guerra in Siria.

Anche secondo Altinay la Turchia sta cominciando a somigliare ai suoi vicini e aggiunge: “Quando apri un simile vaso di Pandora è difficile richiuderlo”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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