Emilio Manfredi è un ricercatore che ha fatto parte dell’International crisis group ed è uno specialista del sud della Libia. Su Libération commenta la presenza del gruppo Stato islamico (Is) sulla costa libica.

Come ha fatto l’Is a prendere posizione sul litorale libico?

A medio termine i jihadisti sono l’unica forza capace di sfruttare una situazione di caos a proprio vantaggio. Si parla molto della creazione di questi gruppi, ma mi sembra che si trascuri il fatto che riescono a ridurre in schiavitù le popolazioni di questi territori. I giovani sono sfruttati dalle reti criminali. Non hanno alternativa perché le forze che si sono installate sul loro territorio sono molto potenti. I vecchi leader comunitari sono indeboliti e non riescono più a reagire, nemmeno sul piano religioso. Nella zona di Derna-Sirte troviamo un sistema simile a uno stato in un litorale che si trova in corrispondenza delle coste calabresi. È un parastato non molto diverso da quello creato nel 2011 nel nord del Mali.

In Libia questo parastato è costituito da diversi gruppi “tribali-criminali” che hanno legami economici importanti nella sottoregione e che si appoggiano su elementi che non sono necessariamente libici. Questi ultimi sono in grado di muovere grandi quantità di denaro, procurarsi armi, stringere rapporti con altri gruppi e organizzare un attacco fuori della loro zona d’influenza.

Perché Derna e Sirte?

La domanda giusta è un’altra: cos’è l’Is in Libia? Chi c’è dietro una forza così potente? Secondo le testimonianze che ho potuto raccogliere e le fonti con cui sono in contatto nel paese, l’Is è strutturato intorno a una forte presenza di elementi esterni. Ci sono molti tunisini associati a diverse sfere d’influenza jihadiste locali estremamente radicalizzate e “gheddafisti” diseredati, a cui si aggiungono spesso forze tribali vicine all’ex leader. Le forze gheddafiste hanno capito perfettamente l’evoluzione politica della zona e come sfruttare la situazione.

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In ogni caso, non si tratta di un’imitazione della struttura dell’Is in Iraq e Siria, dove ex ufficiali baathisti hanno formato e continuano a formare un apparato militare. In Libia gli ex gheddafisti cercano alternative per rientrare in gioco, e l’Is è una manna. Per loro la soluzione migliore è quella di inserirsi in una struttura come quella dell’Is nella speranza di poter conservare un’influenza in alcune zone tribali che erano più legate a Gheddafi.

Non sono figure di spicco del vecchio regime, ma attori di secondo piano. Non si tratta di una forza strutturata come in Iraq e Siria, ma è probabile che l’apporto di alcuni gheddafisti abbia permesso di consolidare, soprattutto a Sirte, un apparato militare locale.

Pensa che possano esserci relazioni tra diversi gruppi presenti nella regione del Sahel?

Ho i miei dubbi. Si parla molto della presenza di una brigata nera di Boko haram, di circa 100-150 elementi che sarebbero attivi nella zona di Sirte. In realtà credo piuttosto che ci siano elementi provenienti dal Mujao [il movimento integralista comparso in Mali nel 2012] o dall’Africa occidentale, a cui si sono agganciati anche elementi nigeriani. O anche ex mercenari saheliani presenti in Libia in diverse fazioni sotto Gheddafi e che si sono ricompattati sotto la bandiera dell’Is perché il loro universo naturale è la clandestinità e il loro mezzo di sostentamento è la guerra.

Tuttavia queste operazioni logistiche nella sottoregione entrano in concorrenza con le reti di Al Qaeda ancora attive, a partire da Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Esistono due reti diverse in forte rivalità. Certo, ci sono relazioni tra loro, ma sono rapporti di circostanza: un gruppo ha bisogno di armi, l’altro di veicoli, un altro ancora vuole proteggere un carico di droga o cerca un figura professionale come un ingegnere petrolifero.

Il paese più minacciato è il Niger. Anche se non è certo il primo obiettivo dell’espansione diretta dell’Is, il Niger è il più malmesso

Non avviene solo in Libia. In un certo senso è il modello di scambio di “competenze” in tutta la sottoregione. A questo si aggiungono sovrapposizioni tribali, potenti gruppi criminali e relazioni di parentela. Il tutto si basa sullo sfruttamento economico e l’estrazione selvaggia di risorse fossili. La differenza è che la rete dell’Is oggi ha una capacità di attrazione infinitamente maggiore rispetto a quella dell’Aqmi. Per questo l’Is può utilizzare la Libia per inviare elementi provenienti dal Medio Oriente verso l’occidente ma anche verso il nord della Nigeria o del Mali e l’estremo sud del Niger.

Quali conseguenze avrebbe sul paese e sulla regione lo sviluppo dell’Is nel golfo di Sirte?

Tutto dipende dalla capacità dell’Is di espandersi ulteriormente nei prossimi mesi. Per il momento la sua rete non rappresenta un pericolo totale per il contesto saheliano, perché il Sahel è ancora legato soprattutto ad Al Qaeda. Non possiamo scartare l’ipotesi di una vera confluenza verso sud per creare un ponte con Boko haram nella zona del lago Ciad. Penso che la strategia dell’Is sia quella di appropriarsi inizialmente delle zone di estrazione-produzione, quindi dirigersi verso est e i pozzi per poi concentrarsi sull’occidente (Tunisia e sud dell’Algeria).

Quali sono i paesi che corrono i rischi maggiori?

Credo che il paese più minacciato sia il Niger. Anche se non è certo il primo obiettivo dell’espansione diretta dell’Is, il Niger è il più malmesso. Basterebbe un soffio a farlo crollare. È già colpito dagli attacchi ricorrenti di Boko haram nella zona orientale. In Niger, senza che nessuno se ne preoccupi (a cominciare dalla Francia) si concentrano tutti i mali possibili: demografia galoppante, democrazia di cartone, corruzione endemica basata su reti affariste legate al potere, esercito poco addestrato e male equipaggiato, debolezza delle istituzioni repubblicane, reti islamiste sotterranee lungo la frontiera con la Nigeria e per concludere un inquietante aumento della repressione scatenata dal presidente Mahamadou Issoufou nei confronti degli oppositori in vista delle elezioni di febbraio.

Quanto al Ciad, con il suo potere autoritario sorretto da un esercito solido, e amato dai francesi, potrebbe affrontare con efficacia le minacce esterne. O almeno finché Idriss Déby sarà vivo. Dopodiché bisognerà affrontare il problema del vuoto di potere a N’Djamena, anche alla luce delle linee di frattura tribali o “tribali-militari” che hanno demolito la società ciadiana.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Libération.

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