Crollo della borsa, grosse fughe di capitali e difficoltosa transizione economica. Il 2016 comincia male per la Cina. Secondo i dati pubblicati il 7 febbraio dalla Banca centrale cinese (Pboc), le riserve di valuta straniera del paese a gennaio sono calate di 99,5 miliardi di dollari (89,2 miliardi di euro): toccando i 3.230 miliardi di dollari hanno portato le riserve monetarie cinesi ai livelli più bassi dal 2012, segno degli sforzi di Pechino per sostenere la sua valuta, lo yuan.
Anche se fino a pochi mesi fa la seconda potenza economica mondiale ispirava fiducia, oggi suscita inquietudine. Le borse mondiali tremano regolarmente per il rallentamento della crescita e per i dubbi riguardo alla capacità del regime comunista di gestirlo.
Le informazioni contraddittorie che Pechino fa emergere sull’argomento non sono d’aiuto. In queste ultime settimane la Cina ha accelerato la svalutazione dello yuan rispetto al dollaro (-1,3 per cento dall’inizio di gennaio, dopo il -4,5 per cento del 2015), pur vantando la sua stabilità dopo essere stato ammesso, a dicembre, nel paniere di valute del Fondo monetario internazionale.
Un fattore che suscita diverse perplessità, in particolare degli Stati Uniti, che chiedono una liberalizzazione “ordinata e trasparente” della moneta cinese, che in effetti è gestita in modo piuttosto oscuro.
A che gioco sta giocando la Cina? Una svalutazione massiccia della valuta può causare una nuova crisi economica mondiale? Siamo alla vigilia di una nuova guerra delle monete? Ecco alcune spiegazioni.
Fino a che punto sarà svalutata la moneta cinese?
Washington accusa da tempo Pechino di deprezzare la sua valuta per favorire le esportazioni. Dal 2005, tuttavia, la Pboc ha ammorbidito il suo sistema di cambi fissi e lo yuan si è rivalutato rispetto al dollaro. Nel luglio del 2015, preparando l’integrazione della moneta cinese nel paniere delle valute di riserva, il Fondo monetario internazionale si era perfino congratulato con la Cina per lo sforzo fatto.
Ma, paradossalmente, alcuni economisti ritengono che oggi lo yuan sia addirittura sopravvalutato. E a ragione: fenomeni strutturali come il rallentamento economico e le fughe di capitali ne abbassano il valore (secondo l’Istituto della finanza internazionale nel 2015 sarebbero usciti dal paese 735 miliardi di dollari).
Al punto che ormai la Pboc si sforza di frenare e distribuire nel tempo queste pressioni verso il basso per evitare un deprezzamento troppo violento. Ad agosto ha quindi adottato un nuovo meccanismo per fissare il tasso di cambio (a suo avviso più conforme alla situazione dei mercati), una manovra che in tre giorni ha causato una svalutazione dello yuan del 2,96 per cento rispetto al dollaro. Un calo che sarebbe stato molto più netto se la Pboc non fosse intervenuta per arrestarlo.
Per sostenere il valore della moneta, la Cina acquista yuan attingendo alle sue riserve di valuta estera, che si sono così ridotte di 770 miliardi di dollari rispetto al loro picco di giugno 2014, quando ammontavano a quattromila miliardi di dollari. Ma perché tutto questo funzioni il paese dovrà anche tamponare le uscite di capitali e convincere gli investitori a restare in Cina. Il che impone delle delicate riforme strutturali.
E se la Pboc decidesse alla fine di lasciare che il valore dello yuan si assestasse liberamente? Secondo gli analisti la svalutazione sarebbe limitata. I fondi d’investimento, invece, scommettono su un crollo più vertiginoso, compreso tra il 30 e il 50 per cento.
La Cina si è lanciata in una guerra monetaria?
È uno spauracchio usato spesso: permettendo la svalutazione dello yuan Pechino vuole scatenare una guerra monetaria con l’obiettivo di rendere più competitive le sue esportazioni. “Non è del tutto vero”, sostiene Thuy Van Pham dell’istituto di studi economici francese Coe-Rexecode. “La strategia della Pboc non è offensiva ma difensiva: non ha scatenato la svalutazione dello yuan, l’ha solo gestita”.
Eppure la prospettiva di una guerra valutaria non è del tutto da escludere nel caso in cui la banca centrale cinese lasciasse fluttuare lo yuan nel mercato. Questo innescherebbe una reazione a catena dagli effetti devastanti: le monete più deboli dei paesi emergenti crollerebbero del tutto, mentre altre banche centrali risponderebbero svalutando la propria moneta.
In che modo Pechino governa la transizione economica?
Pechino fatica a sostenere la transizione della sua economia verso un modello meno dipendente dalle esportazioni e più concentrato sui consumi. Il regime oscilla tra dirigismo e liberismo economico e questa ambiguità crea confusione. Per esempio, le limitazioni imposte in borsa ai grandi azionisti non piacciono affatto ai mercati.
Tuttavia, posto il rallentamento e il riequilibrio della crescita, le autorità continuano a lanciare misure a sostegno dell’economia per garantire la pace sociale. Le prospettive non sono chiare. Il presidente Xi Jinping sfrutterà la sessione plenaria annuale del comitato centrale del Partito comunista per fornire la sua versione sulle prossime evoluzioni? Forse.
“I cinesi non hanno ancora scelto tra stato e mercato”, afferma Ludovic Subran, capo economista della compagnia di assicurazione del credito Euler Hermes. “Ma devono stabilire delle priorità tra moneta, crescita e finanziamento dell’economia”. Come ha mostrato il canadese Robert Mundell, premio Nobel per l’economia, un paese non può godere al contempo di cambi fissi, di una politica monetaria indipendente e della mobilità dei capitali. Se la Cina vuole aprire i suoi mercati di capitali e sostenere la sua economia, dovrà dunque lasciar correre liberamente la sua moneta.
Cosa temono i mercati?
La finanza detesta l’incertezza. Da agosto, ogni deprezzamento dello yuan è stato seguito da una violenta reazione delle borse mondiali, aggravata dal pessimo stato delle piazze finanziarie cinesi. L’indice composito di Shanghai ha perso il 50 per cento da giugno. Resta comunque del 30 per cento superiore al suo livello di metà 2014, prima che si formasse la bolla della borsa cinese. Il che fa dire a Van Pham che “la reazione dei mercati è eccessiva”.
Ma i loro motivi d’inquietudine restano reali: frenata economica, incapacità di Pechino a comunicare chiaramente la sua strategia e rischi di svalutazione dello yuan.
Inoltre, gli sbalzi d’umore dei mercati sono accentuati dalle colossali quantità di liquidità che, dal 2008, le banche centrali hanno iniettato nel sistema finanziario. “Questi capitali si spostano sempre più velocemente da una piazza finanziaria all’altra in cerca di migliori rendimenti, provocando ogni volta dei disastri”, riassume Bei Xu della compagnia d’investimenti Exane Bnp Paribas.
È in discussione la forza dello yuan al livello mondiale?
Il problema è tutto qui. Da quindici anni, il Partito comunista cinese sogna che lo yuan prenda il posto del dollaro. Per questo ammorbidisce un po’ alla volta il controllo sulla sua valuta, che resta parzialmente convertibile. Ha così autorizzato alcune aziende locali a usarlo come valuta per le loro attività di import-export (che fino ad allora si svolgevano in dollari), per emettere delle obbligazioni, e così via.
Risultato? La valuta cinese ha assunto un ruolo sempre più importante nel finanziamento del commercio internazionale. Ma prima che possa scalzare il dollaro, bisognerà che diventi totalmente convertibile e che la liberalizzazione dei mercati finanziari cinesi sia completata. Questione di dieci o vent’anni.
Questo a meno che non siano prolungate le misure adottate in queste ultime settimane dalla Pboc per frenare la speculazione, come il ritiro delle liquidità in yuan disponibili fuori della Cina. “Sono cinque anni che la Pboc non smette di vantare l’apertura progressiva dello yuan, ma oggi il paese fa marcia indietro su alcune misure”, riassume Victor Shih, specialista della Cina all’Università di San Diego, negli Stati Uniti. “Si tratta di una posizione difficile da mantenere, e di una grande prova per il paese”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.
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