Mevo Hama ha una magnifica vista su tre paesi. Sul suo versante occidentale è una rupe a precipizio che scende giù fino al mare di Galilea e al nord di Israele. A sud è un altro pendio scosceso, fino alla Giordania. E al di là dell’altipiano montuoso a est c’è la Siria. Il kibbutz fu fondato poco dopo la conquista da parte di Israele della gran parte delle alture del Golan siriane durante la guerra dei Sei giorni del 1967.
Il 26 dicembre 2021 i ministri israeliani si sono fatti fotografare di fronte allo splendido panorama dopo un vertice speciale che si è tenuto a Mevo Hama. Il governo, guidato dal primo ministro nazionalista Naftali Bennett, aveva appena approvato un piano di spesa da un miliardo di shekel (317 milioni di dollari) per migliaia di nuove abitazioni e infrastrutture nel Golan, con l’obiettivo di raddoppiare la popolazione dell’area (attualmente di 52mila abitanti) entro la fine del decennio.
Il Golan è uno dei quattro territori occupati da Israele durante la guerra dei Sei giorni. Lo stato ebraico ha restituito la penisola del Sinai all’Egitto dopo aver siglato un accordo di pace nel 1978. Si è ritirato dalla Striscia di Gaza nel 2005 (anche se occasionalmente vi ritorna in forze). E lo status definitivo della Cisgiordania non è ancora stato definito.
Invece Israele ha per molto tempo giustificato la sua presenza nel Golan rivendicando la legittima difesa. La Siria aveva a volte utilizzato la posizione sopraelevata per bombardare le fattorie israeliane nella sottostante Galilea. Dopo averne preso possesso, Israele ha espulso una parte dei siriani, ha creato degli insediamenti ebraici e ha costruito postazioni per l’esercito e l’intelligence. Nel 1981 ha poi formalmente annesso 1.800 chilometri quadrati di questo territorio strategicamente prezioso. Negli anni novanta ci sono stati dei negoziati per restituirlo alla Siria, nell’ambito di un più vasto accordo di pace. Ma non sono approdati a niente.
Appoggi interni ed esterni
Gran parte del mondo ritiene che l’annessione israeliana del Golan sia illegale. Eppure, soltanto il regime siriano di Bashar al Assad e i gruppi ambientalisti israeliani, preoccupati per la flora e la fauna della regione, si sono opposti a gran voce al nuovo progetto di sviluppo. Pochi paesi vorrebbero vedere il Golan tornare in mano al sanguinario Assad, anche se sono imbarazzati dal precedente che si verrebbe a creare. I ministri del Partito laburista e di Meretz, formazioni israeliane di sinistra che in passato avevano appoggiato un accordo con la Siria, hanno votato a favore dei progetti di costruzione.
Circa la metà della popolazione del Golan è rappresentata da arabi drusi, che usufruiscono dei servizi israeliani e possono richiedere la cittadinanza dello stato ebraico. Eppure, in molti hanno mantenuto la propria identità siriana, spesso come polizza assicurativa nel caso in cui il dominio israeliano terminasse. I cittadini israeliani tendono a considerare il Golan come una destinazione turistica. La regione ospita infatti l’unica località sciistica del paese. E mentre molti israeliani hanno paura di andare nella Cisgiordania occupata, gli attentati terroristici nel Golan sono rari. I tentativi dell’Iran e dei suoi alleati locali di arruolare i drusi nella propria battaglia contro Israele hanno avuto scarso successo.
Bennett ha affermato che il progetto di sviluppo è stato incoraggiato, in parte, da Washington. Nel 2019 gli Stati Uniti sono stati il primo grande paese a riconoscere la sovranità israeliana nel Golan. Donald Trump, all’epoca presidente, aveva giustificato la decisione usando la logica israeliana della legittima difesa, anche se la mossa era sembrata programmata per andare a beneficio di Benjamin Netanyahu, l’allora primo ministro israeliano, impegnato in una difficoltosa corsa per la rielezione. In segno di gratitudine, Israele ha dato a uno degli insediamenti nel Golan il nome di Trump.
Da allora però Trump e Netanyahu hanno entrambi perso le elezioni, e molte delle lettere dorate dell’insegna che indica le “Trump heights” (le “Alture di Trump”) sono state divelte, probabilmente da vandali. Eppure l’amministrazione Biden non mostra alcun segno di voler fare retromarcia sulla decisione del predecessore. Più incerto è se Bennet abbia intenzione o meno di spendere una parte di quel miliardo di shekel per una nuova scritta.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it