Tra tutte le grandi crisi degli Stati Uniti ce n’è una che viene sistematicamente rimossa dal dibattito pubblico, soprattutto quando ci sono le elezioni. È quella che riguarda il sistema carcerario e penale. Succede per un motivo abbastanza ovvio: per mettere mano a un problema così grande – gli Stati Uniti sono il paese occidentale con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione – servirebbe una riforma radicale che implicherebbe necessariamente un approccio meno punitivo, ma nel paese non c’è un consenso politico abbastanza ampio per andare in questa direzione.

Anche se la criminalità a livello nazionale è in calo da anni, tanti elettori sono convinti che la situazione sia fuori controllo, soprattutto nelle grandi città. E mentre i repubblicani continuano a proporre l’approccio della tolleranza zero, i democratici, che storicamente si sono battuti per la riforma della giustizia penale, rimangono sulla difensiva. Questa dinamica spiega anche l’inazione dell’amministrazione Biden.

L’attuale presidente aveva preso impegni importanti su questo tema durante la campagna elettorale del 2020: riformare il sistema delle cauzioni, che crea disparità tra gli imputati, perché chi ha i mezzi per pagare può uscire di prigione in attesa del processo, chi non ne ha resta dentro o si indebita per pagare la cauzione; modificare la leggi che impongono condanne minime obbligatorie per determinati reati, che negli anni hanno fatto lievitare il numero dei detenuti; abolire la pena di morte a livello federale. Biden aveva anche detto che la popolazione carceraria degli Stati Uniti andrebbe ridotta di più della metà (attualmente nelle prigioni ci sono più di due milioni di persone). Il Marshall Project, un’organizzazione che si occupa di carceri e sistema penale, aveva definito le proposte di Biden “le più progressiste di un candidato alle presidenziali da generazioni”.

Abolire il carcere
Sono sempre di più gli attivisti e gli studiosi convinti che mettere le persone in prigione sia il modo sbagliato per contrastare la violenza e rendere più sicura la società. Dall’archivio di Internazionale.

Questo spiega perché i detenuti cercano di trovare ogni modo possibile per esprimersi: per sensibilizzare la società sulla loro situazione, per comunicare con altre persone nella loro condizione o semplicemente per avere uno spiraglio verso un futuro dignitoso. Di recente hanno avuto molto successo podcast come Ear hustle, che racconta in modo straordinario la vita in una prigione della California; il New York Times pubblica da anni gli articoli di John J. Lennon, un uomo che sta scontando una pena di 28 anni in una prigione dello stato di New York; in alcune prigioni i detenuti hanno realizzato nel tempo decine di opere d’arte che sono diventate un patrimonio culturale di tutta la società; il Marshall Project fa un gran lavoro nel riportare storie e notizie dalle carceri di tutto il paese.

Le nuove tecnologie e la crescita della consapevolezza nelle redazioni su questo tema hanno moltiplicato le possibilità, ma i detenuti sperimentano da sempre strumenti per esprimersi e comunicare.

L’Mpr News, una radio che trasmette storie e notizie dal Minnesota, ha dedicato un articolo al Prison Mirror, una pubblicazione mensile realizzata da e per i detenuti della prigione di Stillwater, stampata per la prima volta nel 1887. “Pubblicazioni come questa non sono comuni negli Stati Uniti, ma in un’epoca in cui molte testate giornalistiche nel mondo libero chiudono o licenziano dipendenti, il giornalismo dietro le sbarre sta crescendo. Secondo le stime, trent’anni fa nelle carceri di tutto il paese c’erano solo sei giornali. Oggi sono quasi trenta, e il dato non tiene conto delle centinaia di scrittori detenuti che mandano articoli a pubblicazioni esterne, come la serie Life Inside del Marshall Project”.

I detenuti di Stillwater scrivono per la rivista recensioni di libri, articoli in cui spiegano questioni legali, riassunti di eventi locali, nazionali e internazionali. “Un detenuto ha recentemente proposto ai redattori un saggio sulla nostalgia di casa. Un altro ha scritto un editoriale che critica le chiusure delle celle. Tre persone mandano avanti tutto il lavoro: Richard Adams, Paul Gordon e Patrick Bonga”. È interessante sentirli spiegare come si sono avvicinati al giornalismo. Gordon, che sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio da quasi 20 anni, lavora al Prison Mirror da pochi mesi. “Credo che il mio compito sia esporre le posizioni e lasciare che le persone arrivino alle loro conclusioni. Spero di scrivere qualcosa di importante e, attraverso la scrittura, di lasciare un’impronta molto diversa da quella che ho già lasciato finora nel mondo”.

Bonga, il redattore con più esperienza, dice che lo sforzo di includere tutti i punti di vista di una storia ha cambiato il suo modo di pensare al mondo. È entrato e uscito di prigione più volte. Ora è dentro per aggressione e racconta che il giornale lo sta aiutando a rompere il ciclo. “Per i primi quarant’anni della mia vita qualsiasi altra opinione diversa dalla mia non aveva importanza. Ma ora, dovendo essere obiettivo e dovendo mettere insieme storie che non siano unilaterali, sto iniziando a lottare contro i pregiudizi. E questa è una cosa importante”.

Adams dice di voler raccontare storie positive: “Non voglio portare la negatività sul giornale perché sappiamo tutti che ci sono tante cose sbagliate”. Nella sua cella ha messo una cassetta dove gli altri detenuti possono lasciare dei foglietti con suggerimenti o richieste su ciò che vogliono leggere. Vuole anche aprire una rubrica di consigli. È un padre e pensa che altri uomini abbiano domande su come essere un buon genitore, anche se il loro rapporto con i figli si riduce alle telefonate.

Fare il giornalista in una prigione è difficile per via dell’accesso alle fonti – i detenuti non possono collegarsi a internet e per sapere cosa succede nel mondo si affidano soprattutto agli articoli di giornale stampati dal personale della prigione – e a causa del controllo che viene fatto sui loro pezzi prima della stampa. “Le autorità carcerarie devono approvare tutto ciò che il giornale pubblica. Questo, spiegano i redattori, può limitare ciò che scrivono, soprattutto se vogliono raccontare gli aspetti più duri della loro vita. ‘Sono limitato nel senso che non mi permetteranno di pubblicare aspetti assurdi che riguardano l’acqua, le chiusure, le condizioni di detenzione’”, dice Gordon.

Lo scorso autunno circa cento prigionieri di Stillwater si sono rifiutati di tornare nelle loro celle, per protestare contro il caldo estremo, la scarsa qualità dell’acqua e la carenza di personale. Gordon ha intenzione di scriverne, ma dice che in passato ha subìto ritorsioni per aver inviato i resoconti a pubblicazioni esterne. “All’epoca scrivevo in modo molto più aggressivo, e questa è stata un’esperienza formativa”, dice. “Se si viene puniti si possono perdere i crediti che permettono di avere una riduzione della pena per buona condotta. Possono mandarci in isolamento o revocare i nostri privilegi”.

Da sapere
Diritto di voto

Un tema centrale, quando si parla di detenuti e rappresentanza politica, è quello del diritto di voto. Storicamente gli Stati Uniti hanno impedito di votare alle persone condannate per un reato, in alcuni casi in modo permanente, cioè anche dopo che avevano finito di scontare la pena. Le cose hanno cominciato a cambiare negli ultimi decenni, e ora c’è la tendenza a ripristinare il diritto di voto a un certo punto del percorso. Si tratta comunque di una scelta politica che spetta ai singoli stati, quindi le regole variano molto tra le varie zone del paese. Qui un utile riassunto stato per stato. Quattro anni fa, prima delle elezioni presidenziali, Slate e Marshall Project pubblicarono i risultati di un sondaggio condotto tra più di ottomila detenuti, il primo di questo tipo nella storia statunitense. I risultati restano interessanti, non tanto per la preferenza tra Biden e Trump ma per i temi sollevati dalle persone dietro le sbarre.


Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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