Questo articolo è uscito sul numero 833 di Internazionale.

Il 25 agosto 2008 due bambini sono entrati in due diverse scuole pubbliche della zona sudest di Washington. Erano entrambi afroamericani e frequentavano la quinta elementare. Sei mesi prima non avevano superato l’esame di matematica.

Il primo bambino è entrato nella Kimball elementary school, e precisamente nell’aula di matematica di William Taylor, una stanza tutta in ordine ma in cui non funzionavano né gli orologi né le prese elettriche. Il secondo bambino è entrato in un’aula molto simile della Plummer elementary school, a circa un chilometro di distanza. In tutti e due gli istituti, più dell’80 per cento degli alunni ha diritto a un pasto gratis o a prezzo ridotto. I bambini vengono da un quartiere dove il 25 per cento delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà e quasi ogni settimana c’è un omicidio.

Alla fine dell’anno scolastico, gli alunni hanno sostenuto il test unificato per le scuole pubbliche del distretto, un esame non proprio perfetto per verificare il loro apprendimento, ma comunque abbastanza obiettivo. Il bambino che aveva frequentato la classe di William Taylor ha ottenuto un punteggio molto più alto dell’anno precedente: prima era al di sotto della media, ma nel nuovo test l’ha superata. I punteggi dei suoi compagni sono aumentati di 13 punti, dieci in più rispetto agli studenti di quinta delle altre scuole della zona che partivano dalle stesse condizioni. Il primo giorno di scuola, solo il 40 per cento degli alunni di Taylor era in grado di seguire una lezione di matematica di quinta elementare. Alla fine dell’anno, il 90 per cento aveva raggiunto o superato quel livello. E il bambino della Plummer? Ha finito l’anno come l’aveva cominciato. Nella sua classe solo un quarto degli alunni ha recuperato, anche se partivano dallo stesso livello della classe di Taylor.

La storia di questi due bambini, e di milioni di altri come loro, conferma uno dei dati più sorprendenti emersi dalle ricerche sull’istruzione statunitense negli ultimi dieci anni: gli insegnanti contano più di qualsiasi altra variabile, più degli istituti e più dei programmi. Se lo studente di Taylor continuerà a imparare allo stesso ritmo ancora per qualche anno, raggiungerà risultati simili a quelli dei suoi coetanei dei quartieri più ricchi. E se i due bambini dovessero mantenere gli stessi insegnanti per tre anni, le loro vite potrebbero essere diverse per sempre: alle superiori il divario diventerebbe incolmabile.

Obiettivi alti
La scelta della scuola è sempre stata una delle principali preoccupazioni dei genitori ma, a livello statistico, la scelta del maestro conta molto di più. La qualità dell’insegnamento varia più all’interno di ogni scuola che tra un istituto e l’altro. Nessuno però è ancora riuscito a stabilire in modo certo e obiettivo come dovrebbe essere un bravo insegnante. Sappiamo riconoscere e apprezzare le sue doti, ma non siamo in grado di riprodurle. Oggi però gli studi sulla qualità dell’insegnamento sono diventati così importanti che non si possono più ignorare. Nell’ultimo anno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il suo segretario all’istruzione Arne Duncan hanno accantonato le discussioni sul sistema scolastico che avevano caratterizzato l’era Bush per concentrarsi sulla qualità dell’insegnamento. E lo hanno fatto usando l’argomento più convincente: uno stanziamento di miliardi di dollari.

Grazie a questa decisione, Duncan dispone di un budget che è più del doppio di quello che normalmente spetta a un ministro dell’istruzione. E ha potuto investire 4,3 miliardi di dollari in un programma che ha chiamato Race to the top, corsa all’eccellenza. Più che una corsa è una maratona, ed è molto faticosa. L’obiettivo è cercare di individuare i bravi insegnanti, capire come lo sono diventati e formarne altri. Ma per vincere questa maratona, gli stati dovranno fare i conti con le resistenze del mondo dell’istruzione: i sindacati della scuola sono sempre stati contrari all’idea di valutare gli insegnanti sulla base dei risultati ottenuti dagli studenti nei test. Secondo questo tipo di valutazione, Taylor è tra gli insegnanti di matematica migliori del distretto. Taylor è simpatico, ma non è un istrione. È preparato, ma insegna solo da tre anni. Tiene molto ai suoi alunni, ma questo si può dire anche di tanti suoi colleghi che non ottengono gli stessi risultati. Cosa fa di diverso?

Da più di dieci anni Teach for America, un’organizzazione non profit indipendente, cerca di svelare questo mistero seguendo migliaia di bambini e cercando di capire perché alcuni insegnanti riescono a farli progredire di tre livelli in un anno e altri no. Teach for America recluta giovani laureati disposti a insegnare per due anni nelle scuole dei quartieri a basso reddito del paese. Da anni formula e verifica ipotesi, affina i criteri per le assunzioni e le strategie di formazione. Nel tempo, ha costruito un laboratorio molto innovativo: nel 2009 circa 500mila bambini, quasi tutti afroamericani o latinoamericani poveri, hanno avuto un insegnante formato da Teach for America. E l’organizzazione ha raccolto un’incredibile quantità di dati sui suoi 7.300 insegnanti. I risultati sono sorprendenti.

Steven Farr è un uomo alto con la voce bassa e profonda. È il responsabile della formazione di Teach for America. Ha il compito di trovare gli insegnanti migliori, studiarli e prepararne altri in grado di ottenere gli stessi risultati.

Farr è cresciuto in una famiglia di insegnanti del Texas. Nel 1993 si è laureato in filosofia ed è stato accettato alla facoltà di legge di Yale, ma nessuna delle due cose lo interessava davvero. Perciò ha lasciato perdere gli studi per un po’ ed è entrato a far parte di Teach for America, che all’epoca era ancora agli inizi. Dopo un mese di formazione Farr è finito a insegnare alla Donna high school della Rio Grande Valley. Aveva più di trenta alunni, molti dei quali figli di immigrati, che a volte sparivano per settimane perché i genitori si spostavano per lavorare ai raccolti. Parlando con Farr di quel periodo ho l’impressione di intervistare un reduce di guerra. “È stato durissimo, ma ne sono molto orgoglioso”, dice a voce bassa.

I bravi insegnanti sembravano instancabili e non si arrendevano mai alla burocrazia e alla mancanza di fondi

Farr insegnava inglese come prima e seconda lingua. In Texas gli alunni devono superare un test unificato d’inglese. Man mano che il giorno dell’esame si avvicinava, Farr provava un misto di ansia e di frustrazione. Finché non arrivarono i risultati: il 76 per cento dei suoi studenti aveva superato il test. Molti dei bocciati abbandonarono la scuola, anche se erano solo al secondo anno. Il preside si congratulò con Farr, ma lui quella notte pianse: “Quei bambini non ce l’hanno fatta perché non sono stato abbastanza bravo”.

Passati due anni, Farr si è iscritto alla facoltà di legge. È tornato a lavorare per Teach for America nel 2001, come responsabile della formazione. In quel periodo la fondatrice dell’organizzazione, Wendy Kopp, cominciava a notare qualcosa di strano: molti dei suoi insegnanti facevano un buon lavoro, ma alcuni ottenevano risultati eccezionali. E nessuno capiva perché.

Farr doveva cercare di scoprirlo. A partire dal 2002, Teach for America ha cominciato a usare i risultati ottenuti dagli studenti nei test per dividere gli insegnanti in tre categorie: quelli che in un anno portavano avanti i loro studenti di un anno e mezzo; quelli che completavano solo il programma di un anno; e quelli che non finivano neanche il programma di un anno. All’inizio era difficile raccogliere dati affidabili e molti insegnanti non rientravano in nessuna delle categorie. Inoltre i dati nudi e crudi non spiegavano perché un insegnante funzionava meglio di un altro.

Così Farr decise di studiare personalmente il lavoro degli insegnanti che secondo Teach for America ottenevano i risultati migliori. Assisteva alle lezioni, leggeva i programmi e discuteva i metodi. Andava a trovarli almeno quattro volte all’anno per sapere cosa stavano facendo e in che modo i corsi di formazione li avevano aiutati.

Emerse subito uno schema preciso. Prima di tutto, i bravi insegnanti fissavano obiettivi molto alti per i loro studenti. E cercavano continuamente di migliorare il loro metodo. Per esempio, quando Farr chiamava gli insegnanti che ottenevano risultati eccezionali e gli chiedeva se poteva andarli a trovare, riceveva spesso la stessa risposta: “Ma certo, venga. Però devo avvertirla che sto rivoluzionando lo schema delle lezioni e modificherò il laboratorio di lettura, perché secondo me potrebbe funzionare meglio”. A forza di sentirsi dire la stessa cosa da alcuni insegnanti e non da altri, Farr formulò un’ipotesi: “I bravi insegnanti rivedono continuamente le loro strategie”.

I migliori avevano altre quattro caratteristiche in comune: erano contenti di coinvolgere gli studenti e le famiglie nel processo d’insegnamento, mantenevano la concentrazione per essere sicuri che tutto quello che facevano contribuisse all’apprendimento, programmavano tutto con un obiettivo preciso e lavoravano a ritroso a partire dal risultato che volevano ottenere. Sembravano instancabili e non si arrendevano mai alla burocrazia e alla mancanza di fondi.

Ma quando Farr raccontò agli altri insegnanti quello che aveva scoperto sui più bravi, venne sommerso da domande concrete. “Va bene, va bene, ma in pratica che fanno? Come programmano le lezioni?”. Così, Farr e i suoi colleghi hanno compilato delle liste di cose da fare collegate ai criteri che avevano individuato. Per esempio, per essere sicuri che i ragazzi stanno imparando, i bravi maestri controllano spesso che abbiano capito: tutti i bambini stanno seguendo quello che dici? Chiedere “avete domande da fare?” non basta, è un classico errore dei principianti. Non sempre gli studenti sono i migliori giudici di quello che stanno imparando.

Spesso Taylor fa lavorare i bambini in gruppo. (Veronika Lukasova)

“Gli insegnanti migliori sanno che le strategie efficaci non sono né misteriose né magiche. La personalità e la simpatia non c’entrano niente”, dice Farr in Teaching as leadership, il libro che ha scritto con i suoi colleghi. Farr non pretende che il suo modello sia l’unico possibile. Ma è convinto che possa migliorare molto le tecniche di insegnamento. I risultati ottenuti finora sembrano dargli ragione: secondo un rapporto interno di Teach for America, nel 2007 il 24 per cento degli insegnanti dell’organizzazione aveva portato avanti i suoi studenti di almeno un anno e mezzo. Nel 2009 la percentuale era passata al 44.

William Taylor, l’insegnante di matematica di Washington, non fa parte di -Teach for America. Ha frequentato le scuole pubbliche della città e poi ha seguito il solito percorso: ha studiato pedagogia all’università e ha ottenuto l’abilitazione. Ma ha molte cose in comune con gli insegnanti che Farr considera più bravi.

Il bingo delle moltiplicazioni
Ogni lunedì gli studenti di Taylor arrivano in classe e cominciano a lavorare in silenzio al “quesito del giorno”, che trovano scritto sulla lavagna. Sono divisi in quattro gruppi, ognuno dei quali ha un leader, che Taylor sceglie mese per mese. L’insegnante entra e dice buongiorno. “Buongiorno!”, rispondono in coro i bambini. Taylor porta una sciarpa, un cardigan a strisce bianche e nere, un paio di occhialini di Dolce e Gabbana, e ha l’aria stanca. Durante i fine settimana studia per il master in amministrazione didattica. Ha un auricolare bluetooth in un orecchio e un orecchino nell’altro.

Dopo pochi minuti, Taylor annuncia che è il momento dell’aritmetica mentale. I bambini mettono via le penne e prendono lo schedario arancione e i pennarelli che hanno sul banco. Taylor comincia a girare per la classe facendo domande a voce alta. “Quanto fa 45 diviso 5?”. I bambini devono fare il calcolo a mente, scrivere la risposta su un cartoncino e alzarlo. Con una rapida occhiata, Taylor controlla se tutti hanno dato la risposta giusta. Poi chiede: “Quanto fa?”. E tutti i bambini dicono: “Nove!”. Quando danno la risposta giusta, gridano sottovoce “Sì!”, e alzano il pugno in aria. Se qualcuno sbaglia il risultato, non subisce l’umiliazione di dirlo da solo ad alta voce, ma Taylor sa che quel bambino deve essere seguito con più attenzione o lavorare di più con il capogruppo. Ha imparato che quando parlano tra loro, i bambini usano un linguaggio più comprensibile.

“Ora proviamo con una domanda più difficile”, dice Taylor. “Quanto fa 120 per 3?”. I cartoncini arancione scendono, poi risalgono. “Ooh, ooh, ooh!”, dice una bambina, incapace di contenersi. “‘Ooh’? È questa la risposta?”, dice Taylor. Poi va alla lavagna per spiegare un nuovo modo di fare le divisioni. È un metodo ingegnoso che richiede un po’ più di tempo ma è molto più facile degli altri, e che non avevo mai visto usare. “Se usi il metodo tradizionale, non tutti capiscono”, dice Taylor. Lui ha imparato quel sistema l’anno scorso da uno dei suoi alunni.

Taylor usa un metodo molto elementare che alcuni esperti chiamano “Io faccio, noi facciamo, tu fai”. Spiega un problema alla lavagna. Poi la classe ne risolve un altro nello stesso modo. Alla fine, ogni bambino ne risolve uno individualmente. Nel momento comune della lezione, Taylor chiede a qualche bambino di contribuire alla soluzione del problema. Ma lo fa estraendo da un barattolo una molletta da bucato a cui è attaccato un nome. Così la scelta è sempre casuale e i bambini più timidi non si innervosiscono.

Quando gli alunni si riuniscono per lavorare in gruppo, nella classe si alza un leggero brusio, ma per quanto mi sforzi non riesco a sentire nessuno che non stia parlando di matematica. Un bambino si china sul banco per aiutare il compagno a risolvere un problema. “Quanto devi aggiungere a 8 per arrivare a 16?”, dice, e aspetta. “Otto”, dice l’altro bambino. “Allora”, replica il primo, “quanto fa 16 meno otto?”.

Le attività si susseguono rapidamente, secondo una routine che i bambini conoscono a memoria, così non si perde tempo. In Teaching as leadership, Farr racconta di aver visto coreografie simili in altre classi che raggiungono buoni risultati. “La routine è così radicata che in teoria l’insegnante non deve dire nulla. Nei casi migliori, la conferma che il metodo funziona è che i ragazzi continuano a seguirla anche in sua assenza”.

Sulla parete di fondo, Taylor ha attaccato dei cartelli che indicano vari segni convenzionali. Se un bambino deve andare in bagno alza la mano con il pugno chiuso, se vuole fare una domanda la alza con il palmo aperto. “In questo modo capisco quello che vuole prima ancora di chiederglielo”, spiega Taylor. C’è perfino un gesto per indicare che è una giornataccia e il bambino non ha voglia di partecipare: basta che appoggi la testa sul banco. Chiedo a Taylor se i suoi allievi lo fanno spesso. “Non ho mai visto un bambino appoggiare la testa sul banco”, dice senza esitazione. “In tre anni?”, chiedo io. “Già”.

Dopo le divisioni, è il momento del bingo delle moltiplicazioni. Taylor legge una domanda, per esempio “20 diviso 5”, e i bambini scorrono le loro cartelle alla ricerca del 4. Una ragazzina trema letteralmente dall’eccitazione. Un’altra stringe le mani come se stesse pregando.

Dopo una decina di domande, un bambino minuscolo dice con una voce minuscola: “Bingo!”. Mentre si alza per andare a ritirare il premio (una matita), gli altri si disperano. “Accidenti!”, esclama una bambina. “Non te la prendere”, dice Taylor sorridendo. “È solo un gioco”. Prima di andarsene, tutti gli alunni compilano un “modulo d’uscita”, che di solito è la soluzione di un problema, così Taylor ha un’altra possibilità di controllare i loro progressi, e i suoi.

Quando parlo con lui dopo la lezione, noto che Taylor tende a riformulare le mie domande per adattarle al suo modo di lavorare. Quando gli chiedo se il primo anno è stato difficile, risponde: “Il rapporto con i bambini non è stato difficile. La difficoltà stava nello spiegare le cose in modo comprensibile. A volte immagini come si svolgerà una lezione, la fai, e alla fine ti accorgi che nessuno ha capito niente”. Come tutti gli insegnanti di Washington con cui ho parlato, Taylor si lamenta della scarsa partecipazione dei genitori. “All’ora di ricevimento, con una classe di 28 o 30 alunni, sei fortunato se vedi sei o sette genitori”, dice. Ma quando gli chiedo quanto questo influisca sul suo lavoro, risponde: “In realtà non molto. Significa che devo essere io a chiamare i genitori, e non solo per dare brutte notizie”. Durante la prima settimana di scuola, Taylor chiama i genitori di tutti gli studenti e gli dà il suo numero di cellulare.

Tenere duro
Alcuni insegnanti che ho intervistato non hanno fatto altro che lamentarsi. “Con tutti i test, le relazioni sul comportamento degli studenti e le statistiche, ogni anno diventa più difficile”, mi ha detto un’insegnante di quarta della Kimball, la stessa scuola dove insegna Taylor. “Facciamo più lavoro di quello che dovremmo. Non ci lasciano il tempo per essere creativi”.

Questa maestra, che ha 23 anni di esperienza e ormai guadagna più di 80mila dollari all’anno (poco meno di 60mila euro), è una persona gentile e ha una classe pulita e ordinata. Ha comprato lei stessa le lavagne bianche, l’orologio e il lettore di dvd. Ma, a differenza di Taylor, non ha grandi aspettative. “I bambini dei quartieri nordoccidentali vanno in vacanza in Francia o in crociera. I genitori li fanno viaggiare, parlano con loro e li portano in biblioteca”, dice. “I genitori dei nostri ragazzi invece non hanno i mezzi per aiutarli”.

Alla fine quello che conta è l’atteggiamento mentale dell’insegnante, la sua determinazione a risolvere i problemi

All’inizio dell’anno scolastico il 66 per cento dei suoi alunni aveva una capacità di lettura uguale o superiore a quella richiesta in terza elementare. Dopo un anno passato con lei, solo il 44 per cento aveva raggiunto il livello di quarta e nessuno lo aveva superato. I suoi studenti avevano un punteggio più basso rispetto ai loro coetanei di altre scuole dei quartieri poveri del distretto. Per anni la colpa dell’incapacità di apprendere è stata attribuita ai bambini e al loro ambiente familiare. Oggi con i dati che stanno emergendo da classi come quella di William Taylor, è più difficile sostenere questa tesi. La povertà, ovviamente, influisce molto. Ma in tutto il paese ci sono insegnanti che riescono a far progredire i bambini poveri mentre nella classe accanto non succede nulla. “Alla fine quello che conta è l’atteggiamento mentale dell’insegnante, la sua determinazione a risolvere i problemi”, dice Timothy Daly, presidente del New teacher project, un’altra organizzazione che aiuta le scuole a reclutare bravi insegnanti.

Dopo un anno o due di insegnamento, si capisce subito chi è bravo e chi no. Ma nessuno viene mai licenziato. I presidi non esprimono quasi mai valutazioni negative sui docenti, anche se i risultati che ottengono sono scarsi. In teoria, le scuole dovrebbero assumere insegnanti migliori fin dall’inizio. Ma non è facile sceglierli. Come si fa a capire chi ha l’atteggiamento mentale giusto?

Quando ha cominciato la sua attività, Teach for America selezionava i candidati in base a dodici criteri (tra cui per esempio la tenacia e le capacità comunicative), individuati dopo aver parlato con gli esperti del settore. Gli aspiranti docenti dovevano anche compilare un questionario con domande a risposta aperta del tipo: “Cos’è il vento?”. A partire dal 2000, l’organizzazione ha cominciato a riesaminare i suoi giudizi. Cosa avevano in comune tra loro gli insegnanti migliori nel momento in cui si presentavano al colloquio?

Una volta costruito, il modello di selezione basato sugli esiti finali ha dato risultati inattesi. “Quando ho cominciato a fare questo lavoro avevo la testa piena di teorie”, racconta Monique Ayotte-Hoeltzel, che all’epoca coordinava le selezioni. “ma ho dovuto abbandonare molte delle mie certezze”. Sulla base della sua esperienza di insegnamento nel delta del Mississippi, Ayotte-Hoeltzel era convinta, per esempio, che le persone che avevano già insegnato nei quartieri poveri avessero maggiori probabilità di successo. Ma si sbagliava. Dall’analisi dei dati è risultato che non c’era nessuna relazione tra le due cose.

Per anni, Teach for America ha usato come criterio di selezione quello che chiamava “apprendimento continuo”. Farr e i suoi colleghi avevano notato che i bravi insegnanti riflettevano sul loro modo di lavorare e, se lo ritenevano necessario, lo modificavano. Le persone più consapevoli, insomma, sembravano una buona scelta. Ma nel 2003 il personale addetto alle selezioni ha scoperto che neanche la tendenza all’autocritica contava molto. O meglio, cercare di prevedere chi era pronto a fare autocritica era inutile. Una garanzia di successo era invece la tenacia, non solo come atteggiamento mentale ma come elemento del curriculum.

Gli insegnanti contenti della propria vita hanno il 43 per cento di probabilità in più di fare bene il loro lavoro rispetto ai colleghi insoddisfatti

Durante la fase dei colloqui, Teach for America chiede ai candidati di parlare delle difficoltà della loro vita, e giudica la loro tenacia dalle risposte. Gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of positive psychology a novembre del 2009 hanno esaminato 390 educatori di Teach for America prima e dopo un anno di insegnamento. Quelli che all’inizio avevano un punteggio alto per la “grinta” – definita come un misto di tenacia e di passione per gli obiettivi a lungo termine, misurata con l’aiuto di un breve test a scelta multipla – avevano il 31 per cento di probabilità in più rispetto agli altri di far migliorare gli studenti. In teoria, le persone grintose sono instancabili e s’impegnano di più. Ma c’era una caratteristica decisiva: gli insegnanti contenti della loro vita avevano il 43 per cento di probabilità in più di fare bene il loro lavoro rispetto ai colleghi meno soddisfatti. Secondo lo studio, “insegnanti di questo tipo stabiliscono rapporti migliori con gli allievi, a cui comunicano anche il loro zelo e il loro entusiasmo”.

In generale, tuttavia, lo staff di Teach for America ha scoperto che i risultati del passato, soprattutto se sono misurabili, sono il mezzo migliore per prevedere quelli futuri. I candidati che sono andati particolarmente bene all’università tendono a ottenere molti successi anche quando insegnano. E i due strumenti di misurazione migliori sono la media dei voti e “l’attitudine alla leadership”, cioè l’aver gestito qualcosa che ha prodotto risultati tangibili.

La preparazione conta, ma non in tutti i casi. Alcuni studi condotti sugli insegnanti di matematica delle superiori hanno dimostrato che chi ha una laurea in quella materia ottiene risultati migliori. Più in generale, le persone che hanno frequentato un ateneo prestigioso hanno più probabilità di essere ottimi insegnanti. Un master in pedagogia, invece, non serve a molto.

Le credenziali migliori sono quelle meno specifiche, come la tenacia, appunto. L’estate scorsa, da un’analisi interna di Teach for America è emerso che la media dei voti di un candidato durante l’intero corso universitario non è un buon elemento di valutazione quanto la sua media degli ultimi due anni. In altre parole, se uno studente comincia con voti mediocri e poi migliora, quella curva di crescita è più importante di una media del 30.

Tempo scaduto
L’anno scorso, Teach for America ha esaminato 35mila candidati per selezionare 4.100 nuovi insegnanti. Lo staff sceglie le persone da assumere quasi esclusivamente sulla base di un modello computerizzato: inserisce trenta dati di un certo candidato e il computer elabora il risultato. Il modello cambia ogni anno, a seconda di quello che emerge dai dati dei nuovi studenti. Quest’anno Teach for America mi ha permesso di assistere a quella parte del processo di selezione chiamata “Lezione campione”, in cui ognuno tiene una lezione agli altri candidati per cinque minuti. Solo metà di quelli che presentano la domanda arriva a questa fase.

Oggi il gruppo è formato da tre uomini e due donne, tutti all’ultimo anno di università o appena laureati. Quando arriva il suo turno, si alza una ragazza. Ha i capelli biondi ricci, indossa un completo blu scuro e si chiama Abigail. Ci informa che terrà una lezione di spagnolo di quinta elementare. Attacca al muro un cartello che ha preparato. Poi scrive il suo obiettivo sulla lavagna: insegnare i giorni della settimana. Krzysztof Kosmicki, uno dei direttori del programma Teach for America, fa partire il cronometro. A me sembra che l’obiettivo di Abigail sia troppo limitato (soprattutto rispetto a quello di un altro candidato che ha tenuto una lezione sui “cinque fluidi corporei con cui si trasmette l’aids”). Chiede alla classe di ripetere i giorni della settimana. “Lo so che è difficile ricordarli”, dice. Quindi gli insegna una canzoncina che li aiuta a memorizzarli, e gliela fa cantare due volte. “Se non sento tutte le vostre voci, la canteremo di nuovo fino a quando non le sentirò”. Quando chiede qual è il giorno della settimana, Kosmicki dà la risposta sbagliata. Chiede a un altro candidato di correggerlo, lui lo fa, e il tempo è scaduto.

L’ultimo candidato ad affrontare la prova è un ragazzo che chiamerò Michael. Fino a quel momento è stato molto tranquillo, ma quando comincia a insegnare si anima. Il suo obiettivo è insegnare l’ordine delle operazioni in un problema di matematica. “Buongiorno, ragazzi!”, esordisce arrivando. Quando qualcuno dà la risposta giusta dice “Correctomundo!”. Sembra sicuro di sé. Chiede un volontario per svolgere una parte del problema alla lavagna, e un altro candidato si fa avanti. Kosmicki gli chiede di spiegare di nuovo gli esponenti, e lui lo fa. Tempo scaduto.

Più tardi, chiedo a Kosmicki quali sono state le sue impressioni. Gli è piaciuta la lezione di Abigail, ma non quella di Michael. A lui non interessano le cose che io ho notato di più: il carisma, l’obiettivo ambizioso della lezione, il carattere estroverso. Quello che conta di più, almeno per Teach for America, è meno visibile: si era preparato? Ha raggiunto l’obiettivo in cinque minuti? “La prova di Abigail è stata ottima”, dice Kosmicki. “Era chiaro che si era preparata. Gli studenti avevano già imparato i giorni della settimana al terzo o quarto minuto”. Kosmicki ha seguito quello che stava facendo Abigail, ma ha osservato soprattutto le possibili reazioni degli allievi.

La prossima estate, quelli che sono stati selezionati frequenteranno un corso di formazione di Teach for America. A quel punto entreranno in gioco Steven Farr e i suoi colleghi. Per loro, il problema non è tanto formare l’insegnante perfetto quanto individuare in tempo i punti deboli dei candidati per correggerli durante la formazione. Farr è ogni anno più ottimista. “Quando vedo centinaia di persone che ottengono dei risultati in un mondo in cui quasi tutti pensano che il successo sia impossibile, so che si può fare”, dice.

Naturalmente, grazie alla sua fama, Teach for America può attingere a un ricco serbatoio di laureati: durante l’anno scolastico 2008-2009, l’11 per cento delle domande è arrivato da ex studenti dell’Ivy League. I grandi distretti scolastici a basso reddito non hanno mai tante domande, e la maggior parte dei candidati non è di alto livello. Inoltre, molti non resistono a lungo. Ma se i distretti scolastici li assumessero, li formassero e li ricompensassero in base ai criteri individuati da Teach for America, gli insegnanti non sarebbero frustrati. Lavorerebbero all’interno di un sistema già progettato per il successo.

Test per tutti
Quest’anno le scuole pubbliche di Washington hanno cominciato a usare un nuovo metodo di valutazione per tutto il personale, dagli insegnanti ai custodi. Alla fine dell’anno, a ciascuno viene dato un voto, come agli studenti. Per gli insegnanti i cui studenti sono sottoposti a un test finale unico, come William Taylor, metà del punteggio si baserà sui progressi che hanno fatto. Il resto dipenderà da cinque sedute di osservazione condotte dal preside, dal vicepreside e da un gruppo di ispettori.

Durante l’anno, gli insegnanti seguiranno corsi di aggiornamento e quelli che rimarranno al di sotto di una certa soglia potranno essere licenziati. Il manuale di applicazione del nuovo metodo somiglia a quello di Teach for America, e non è una coincidenza. L’uomo che l’ha concepito, Jason Kamras, ha lavorato otto anni per
Teach for America nelle scuole dei quartieri a basso reddito della città. La stessa Michelle Rhee, che dirige il sistema delle scuole pubbliche di Washington, è un’ex allieva di Teach for America passata a dirigere il New teacher project.

Washington ha presentato domanda per ottenere i fondi del programma Race to the top. Per averne diritto, gli stati devono abolire qualsiasi impedimento legale a collegare i risultati degli studenti agli insegnanti. Devono anche cominciare a distinguere gli insegnanti che funzionano da quelli che non funzionano, e tenerne conto al momento di assegnare cattedre, concedere aumenti e licenziare. E ogni anno gli stati devono rendere pubblico quale dei loro programmi educativi ha prodotto gli insegnanti e i presidi migliori. Se le autorità statali e scolastiche, e i sindacati degli insegnanti, accetteranno la sfida, Race to the top potrebbe cominciare a rendere più efficienti le scuole americane.

La primavera prossima, quando l’amministrazione Obama comincerà a distribuire i fondi, William Taylor avrà quasi finito un altro anno alla Kimball. La mattina del test unico preparerà per i suoi studenti una colazione a base di uova, salsicce e
toast, come fa sempre. Ma tra qualche anno Taylor smetterà di insegnare. Vorrebbe diventare preside. Dopo tre anni di insegnamento, vorrebbe trasferire quello che ha imparato a livello organizzativo. In questo modo, dice, “non resterà tutto dentro l’aula 204”. Come molti bravi insegnanti, Taylor sa di non essere una rarità. O almeno, sa che non dovrebbe esserlo.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul numero 833 di Internazionale. Era stato pubblicato sull’Atlantic.

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