Il 16 luglio la camera ha dato il via libera al rifinanziamento delle missioni militari italiane all’estero e ai fondi per l’addestramento e l’appoggio alla cosiddetta guardia costiera libica, un corpo militare creato nel 2017, addestrato e finanziato dall’Italia per intercettare le imbarcazioni di migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale e riportarle indietro, in un paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e in cui sono state documentate violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.
Tutti i partiti hanno votato a favore del rifinanziamento, tranne 23 deputati di Leu e i dissidenti del Pd. I voti favorevoli sono stati 401, una larghissima maggioranza. Il provvedimento riguarda la proroga della partecipazione del contingente della guardia di finanza e dell’arma dei carabinieri alla missione bilaterale in Libia, il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, alla missione europea Eunavfor Med Irini nel Mediterraneo centrale e inoltre alla missione Nato Seaguardian.
“L’obiettivo è fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani tramite l’addestramento dei militari libici”, si legge nel testo del provvedimento che giustifica il finanziamento alla guardia costiera. Ma questo è solo l’ultimo capitolo di una lunga vicenda cominciata nel febbraio del 2017, quando l’Italia ha deciso di ripristinare il trattato di amicizia che aveva stipulato con Tripoli nel 2008, firmando il cosiddetto Memorandum d’intesa (Mou) con l’obiettivo di fermare le imbarcazioni di migranti lungo la rotta.
Uno dei temi più controversi del dossier Libia, oltre alle violazioni dei diritti umani nel paese e in particolare nei centri di detenzione, è la mancanza di monitoraggio dei fondi versati nelle casse di Tripoli nel corso degli ultimi anni sia dall’Italia sia dall’Europa. Fondi che, secondo alcune inchieste, sono finiti nelle mani di trafficanti e milizie, le stesse che determinano l’instabilità del paese a partire dal 2011 e che lucrano sul traffico di esseri umani, in un paese in cui la legge prevede la detenzione dei migranti irregolari. Ma quanti soldi sono stati versati nel corso degli ultimi anni? Come sono stati usati? E quanti se ne prevedono per gli anni a venire?
Le missioni italiane in Libia
L’Italia ha attive in Libia quattro missioni militari: la missione bilaterale di supporto alla Libia, il supporto alla guardia costiera libica, Unsmil (la missione dell’Onu in Libia) ed Eubam (la missione dell’Unione europea per il controllo delle frontiere). Inoltre è presente nel Mediterraneo centrale con le operazioni marittime Mare sicuro della marina militare, con la missione europea Eunavfor Med Irini e con la missione Nato Seaguardian. Dal 2017 Roma ha speso in Libia un totale di 784,3 milioni di euro, di cui 213,9 in missioni militari. Nel complesso i fondi sono aumentati di anno in anno con il doppio obiettivo di fermare l’arrivo di migranti e di accrescere l’influenza italiana nell’ex colonia nel caos dal 2011, dopo la caduta dell’ex dittatore Muammar Gheddafi.
Per l’addestramento e il sostegno alla guardia costiera libica lo stanziamento di fondi è passato dai 3,6 milioni di euro nel 2017 ai dieci milioni previsti nel 2020. In questi anni è cambiato in sostanza solo l’impegno su Eunavfor Med. “La missione navale europea Sophia (attiva dal 2015) è stata sostituita nel 2019 dalla missione Irini, che ha cambiato obiettivo e si è concentrata sul pattugliamento della parte orientale della costa libica. Alcune funzioni che prima erano di Sophia sono state passate alla guardia costiera libica”, spiega Paolo Pezzati, responsabile dello studio sui fondi italiani in Libia per Oxfam Italia.
Inoltre alla missione bilaterale Italia-Libia sono stati affidati alcuni compiti che precedentemente erano di Mare sicuro: “Sono confluiti inoltre fra i compiti di questa nuova missione anche alcuni compiti di supporto alla guardia costiera libica, in particolare quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici, originariamente demandati al dispositivo aeronavale nazionale Mare sicuro”. Per quanto riguarda Mare sicuro si legge nel documento che “a seguito dell’evoluzione della crisi libica, si rende necessario potenziare il dispositivo aeronavale, al fine di contribuire ad arginare il fenomeno dei traffici illeciti e rafforzare le capacità di controllo da parte delle autorità libiche, con assetti con compiti di presenza, sorveglianza, sicurezza marittima, raccolta informativa e supporto alle autorità libiche”.
Uno dei punti critici della vicenda è la mancanza di trasparenza su questi fondi: “Non si capisce come sono stati realmente spesi i fondi in Libia e quale sia stato l’impatto effettivo sui diritti umani, infatti gli atti della rendicontazione sono secretati al momento”. Per Pezzati il parlamento stesso dovrebbe pretendere che sia almeno chiarito questo punto, invece di fatto le missioni sono state rifinanziate senza che sia stata valutata l’efficacia degli investimenti. “Ormai le missioni sono state rifinanziate, ma bisognerebbe capire che succederà nei prossimi anni. Il parlamento dovrebbe chiedere maggiore trasparenza”, conclude Pezzati.
I fondi europei
Dal 2017 l’Italia ha ricevuto dall’Unione europea, tramite l’Eu emergency trust fund Africa (Eutf, un fondo fiduciario per l’Africa), 87 milioni di euro che sono stati gestiti dal ministero dell’interno e 22 milioni gestiti dal ministero degli esteri, in particolare dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (tra cui i sei milioni spesi per le migliorie nei centri dei detenzione libici di cui parliamo nel paragrafo successivo).
L’Eutf è un fondo europeo nato nel 2015 come strumento straordinario di cooperazione allo sviluppo per far fronte alla cosiddetta crisi dei rifugiati. Con questo strumento sono stati recuperati fondi da diverse altre voci di spesa del bilancio europeo – in particolare quelle destinate alla cooperazione allo sviluppo –per finanziare il controllo delle frontiere e le politiche di blocco dell’immigrazione delegate ai paesi extraeuropei come la Libia, il Niger, l’Egitto, il Sudan.
Alla Libia sono stati destinati nel complesso 435 milioni dei 4,1 miliardi complessivi del fondo e l’Italia ha ricevuto circa cento milioni in totale a partire dal 2017. Nel complesso l’Unione europea ha investito in Libia circa 700 milioni di euro nel bilancio 2014-2020 attingendo a diversi fondi: l’Eutf, lo European neighbourhood instrument (Eni), European civil protection and humanitarian aid operations (Echo), l’Instrument contributing to stability and peace (Icsp).
Al momento si sta discutendo del bilancio europeo dei prossimi sette anni (2021-2027), anche se i negoziati vanno molto a rilento, ma dalla prime bozze in discussione emerge che i fondi per la migrazione, per il controllo delle frontiere e per i rimpatri aumenteranno.
“Nel nuovo bilancio europeo aumentano sia le risorse destinate alla gestione esterna dell’immigrazione sia quelle destinate alla gestione del fenomeno all’interno dell’Unione”, spiega Roberto Sensi, analista ed esperto di Action Aid. “Nel nuovo bilancio si codifica quello che è stato sperimentato a partire dal 2015 con il Trust fund (l’Eutf), si crea un capitolo di spesa dedicato esclusivamente alla migrazione in cui vengono assorbiti diversi fondi. E secondo alcune proposte sarà già previsto di poter dirottare il 5 per cento delle risorse destinate alla gestione interna della migrazione sulla gestione esterna in caso di crisi”, continua Sensi. “Inoltre i fondi per i rimpatri sono maggiori di quelli per l’integrazione”, continua. Se le bozze attuali dovessero essere confermate si tratterebbe di 30,8 miliardi di euro destinati al controllo delle frontiere interne ed esterne più dieci miliardi destinati ai paesi extraeuropei per la gestione dei flussi.
Ma anche in questo caso il problema è quello della trasparenza e della valutazione dell’impatto. “Si aumentano le risorse per il controllo dei flussi, ma non c’è nessun metodo di controllo e di monitoraggio dei fondi stanziati”, spiega Sensi. “La trasparenza è bassa, sappiamo quanto è stato speso, ma non sappiamo nel dettaglio come. Uno dei temi al livello europeo è il ruolo del parlamento sul controllo di questi fondi. Infine anche nello scorso bilancio non è stata fatta nessuna valutazione d’impatto dei fondi spesi per la migrazione”.
Le ong nei centri di detenzione libici
Un’attenzione particolare è da dedicare all’attività italiana dentro i centri di detenzione libici in cui sono stati documentati dall’Onu “inimmaginabili orrori” ai danni degli stranieri reclusi. Nel novembre del 2017, qualche mese dopo la firma del Memorandum d’intesa con Tripoli, l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo indiceva un bando per permettere alle ong italiane di entrare nei centri di detenzione libici dove sono rinchiusi migliaia di stranieri per garantire degli standard umanitari minimi. I progetti (alcuni dei quali sono ancora in corso di realizzazione) sono stati finanziati con sei milioni di euro.
Il bando ha suscitato fin dal 2017 molte critiche sia perché il sistema di detenzione per migranti in Libia è caratterizzato da gravissimi e sistematici abusi (“è troppo compromesso per essere aggiustato”, aveva detto il Commissario Onu per i diritti umani) sia per la vicinanza temporale con gli accordi Italia-Libia del febbraio 2017. I centri di detenzione libici infatti, soprattutto quelli nei dintorni di Tripoli, sono destinati a ospitare anche migranti intercettati in mare dalla guardia costiera libica, a cui l’Italia ha fornito e tuttora fornisce appoggio economico e operativo.
L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) il 27 luglio ha pubblicato un rapporto in cui ha analizzato l’efficacia degli interventi italiani per migliorare le condizioni all’interno dei centri di detenzione libici arrivando alla conclusione che: “Nei centri nei pressi di Tripoli le ong italiane svolgano un’attività strutturale, che si sostituisce in parte alle responsabilità di gestione quotidiana dei centri che spetterebbe al governo libico. Inoltre, alcuni interventi non sono a beneficio dei detenuti ma della struttura detentiva, preservandone la solidità strutturale e la sua capacità di ospitare, anche in futuro, nuovi prigionieri”.
Infine il rapporto si interroga sulla destinazione effettiva dei beni e dei servizi erogati: “L’assenza di personale italiano sul campo e il fatto che i centri siano in gran parte gestiti da milizie indubbiamente ostacolano un controllo effettivo sulla destinazione dei beni acquistati. L’approssimativa rendicontazione da parte di alcune ong delle spese sostenute sembra avvalorare il quadro di scarso o nullo controllo su quanto effettivamente attuato dagli partner libici sul campo. Non può così escludersi che di almeno parte dei fondi abbiano beneficiato i gestori dei centri, ossia quelle stesse milizie che sono talora anche attori del conflitto armato sul territorio libico nonché autori delle già ricordate sevizie ai danni dei detenuti”.
L’Asgi ha avuto accesso agli atti, con le richieste Foia. Ma di fatto anche in questo caso è mancata una valutazione d’impatto da parte delle istituzioni dei fondi versati. Per Salvatore Fachile dell’Asgi, ci potrebbe essere anche una responsabilità giuridica dell’Italia rispetto ai reati contro l’umanità commessi dalle milizie negli stessi centri di detenzione: “L’erogazione di questi fondi potrebbe rendere complici gli italiani con le violazioni profonde dei diritti umani nei centri di detenzione”.
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