La strada si lascia alle spalle l’azzurro della costa caraibica e si immerge nel verde intenso delle piantagioni di banane. Nell’estremo sud della Costa Rica, gli ultimi quaranta chilometri che portano alla frontiera con Panamá sono quasi completamente rettilinei. Sixaloa è l’ultima cittadina costaricana prima del confine. Il paesaggio è pieno di piantagioni di banane intervallate da camion, magazzini, un aerodromo e insegne di marchi dell’industria agroalimentare. Nella regione i principali datori di lavoro sono Chiquita, Del Monte e Dole, tre multinazionali che insieme rappresentano l’80 per cento delle esportazioni di banane del paese.
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), dagli anni duemila la Costa Rica è il quarto esportatore mondiale di banane dopo l’Ecuador, le Filippine e il Guatemala. La maggioranza della produzione, circa 2,4 milioni di tonnellate all’anno, è destinata agli Stati Uniti e all’Europa (che riceve più di un milione di tonnellate).
Tra gli edifici delle aziende sono state costruite baracche di legno con tetti e muri rattoppati: sono le case dei lavoratori dell’industria della banana. Lo stato di queste abitazioni è la prima cosa che attira l’attenzione a Sixaloa. Nelle baracche vivono intere famiglie, con bambini e nonni. In gran parte sono nativi ngäbe-buglé, arrivati da Panamá per lavorare nelle piantagioni. Basta poco per accorgersi che a Sixaloa la produzione agroindustriale non ha portato lo sviluppo sociale promesso.
Il visitatore nota subito un velo che ricopre gli occhi degli uomini, come se tutti avessero la cataratta già a trent’anni. “Ci vedo male, da vicino e da lontano”, ammette un dipendente della Chiquita. Ha 53 anni e lavora nel processo di confezionamento: copre i caschi di banane con sacchi di plastica impregnati di insetticidi per proteggere i frutti dai parassiti. “Alcuni colleghi sono diventati ciechi. Appoggiando il sacco sul casco di banane l’umidità contenuta nelle foglie ci cade addosso, insieme ai prodotti chimici che contiene”, dice.
Per dimostrare che quello che dice è vero, ci porta da un altro lavoratore a giornata che ha perso la vista dall’occhio sinistro. La lesione non è stata considerata un incidente sul lavoro e non ha portato a nessuna indagine interna. Ma lui ha una spiegazione: “L’aereo che spruzza i pesticidi era passato il giorno prima che cominciassi ad avere problemi. Aveva piovuto e le foglie si erano riempite d’acqua. L’occhio mi bruciava, sono sicuro che è colpa di un prodotto chimico”, dice .
Questo resoconto non sorprende Berna van Wendel de Joode, epidemiologa dell’Istituto regionale di studi sulle sostanze tossiche dell’università della Costa Rica (Iret-Una) che ha realizzato varie ricerche sulla salute dei lavoratori delle piantagioni. “Sappiamo che alcuni pesticidi possono danneggiare la vista, per esempio il clorotalonil. Nella Costa Rica l’uso di questo fungicida è stato vietato nel 2023. Per le banane si usano più pesticidi che per le altre colture e abbiamo sempre constatato problemi di salute legati all’impiego di questi composti chimici”.
Negli ultimi trent’anni le università pubbliche costaricane hanno condotto vari studi sugli effetti dei pesticidi. Le indagini dei ricercatori dell’Iret hanno rilevato danni persistenti sul sistema nervoso centrale dei lavoratori delle piantagioni, cioè circa quarantamila persone, centomila contando anche le persone impiegate nell’intera produzione. Il funzionamento della tiroide delle donne incinte, indispensabile per la crescita del feto, cambia con l’esposizione ai pesticidi. Molti neonati hanno una circonferenza craniale ridotta e un peso inferiore alla media.
“Dagli anni novanta la nostra superficie agricola è rimasta quasi inalterata, ma l’impiego dei pesticidi è cresciuto costantemente. Per le banane la quantità di pesticidi per ettaro impiegata ogni anno è passata dai cinquanta/settanta chili a circa cento chili”, spiega Fernando Ramírez, ricercatore dell’Iret. Secondo i suoi calcoli, l’80 per cento dei pesticidi usati nella Costa Rica è considerato “altamente pericoloso” dalla Fao e dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il pesticida più diffuso è il mancozeb, che da solo rappresenta più di un terzo della quantità totale di pesticidi del paese. È vietato in 29 paesi, tra cui quelli dell’Unione europea.
Nella Costa Rica le monocolture di banane sono produttive tutto l’anno grazie al clima tropicale. “Questo significa che i pesticidi si impiegano sempre. Oggi le loro formule sono più concentrate rispetto a vent’anni fa. Gli insetticidi per combattere le cocciniglie sono spruzzati dagli aerei”, dice Ramírez.
A Sixaola gli aerei passano nelle ore meno calde per evitare la dispersione dei fumiganti. In base alla legge le piantagioni devono essere evacuate quando i velivoli sorvolano la zona. “Con il gps la tecnologia è migliorata, ma si commettono comunque degli errori”, dice il ricercatore. Questi “errori” sono ben visibili su un cellulare che ci consegna uno dei lavoratori. Un video mostra alcuni uomini al lavoro nella piantagione, poi l’obiettivo punta verso il cielo e immortala un piccolo aereo che lascia dietro di sé una scia gialla. “I capisquadra ci spostano da una zona all’altra in base al passaggio degli aerei, ma a volte si sbagliano”, raconta il lavoratore, che ha 36 anni. Dopo aver trascorso diciotto anni nelle piantagioni, anche i suoi occhi hanno un velo.
Alle lavoratrici i prodotti tossici provocano irritazioni della pelle e problemi respiratori. Le incontriamo al mercato, dove riempiono i loro cesti alla fine di una giornata trascorsa negli stabilimenti. La maggior parte si occupa del lavaggio e dell’imballaggio delle banane per le esportazioni. Davanti a loro ci sono contenitori pieni di prodotti chimici in cui immergono la frutta. Una lavoratrice ci mostra le macchie rosse sulle braccia, mentre un’altra ha la pelle delle mani sbiancata. “Usiamo grembiuli e guanti, ma abbiamo poco spazio per lavorare e l’acqua schizza da tutte le parti. Dovremmo indossare tute da astronauti per non bagnarci”, racconta sorridendo la più giovane del gruppo.
I contenitori sono pieni di fungicidi, di pastiglie di cloro ma anche di alluminio, usato per far sparire le macchie sulla buccia dei frutti. La dottoressa Annie Vargas lavora nella clinica di Sixaloa dal 2016 e conosce bene questi sintomi. “Le irritazioni della pelle sono difficili da curare, perché l’umidità è costante. I responsabili hanno l’obbligo di allontanare dai contenitori qualsiasi lavoratrice quando gli operatori sanitari lo richiedono, ma non sono mai contenti di farlo. Lontano dai contenitori, le donne possono rimettersi in salute più velocemente. In ogni caso le persone più esposte al rischio sono quelle che lavorano nelle piantagioni”.
Per capire la durezza delle condizioni di lavoro bisogna addentrarsi nelle monocolture, dove il termometro non scende quasi mai sotto i 30 gradi. Avanzando nel fango e seguendo i binari per il trasporto, incontriamo squadre di lavoratori con mansioni diverse. Un uomo, da solo, copre i caschi di banane con i sacchi senza nessuna protezione, né occhiali né guanti. Mentre si arrampica su un albero tiene in bocca il sacco impregnato di pesticidi, per avere le mani libere.
Ancora più avanti incontriamo un gruppo di cinque uomini che polverizzano i pesticidi dopo averli trasportati in sacchi sulle spalle, senza protezione. Quando gli chiediamo dove siano i loro equipaggiamenti (obbligatori), vanno a cercarli. Sono in fondo a dei sacchi di tela, vicinissimi ai bidoni che contengono i prodotti chimici. “Il problema è che con questo caldo non possiamo lavorare velocemente con questa attrezzatura sulle spalle”, dice un ragazzo. La retribuzione è legata alla produttività, dunque l’equipaggiamento protettivo è un ostacolo. In media i lavoratori incassano 20 dollari (quasi 19 euro) al giorno.
Proseguendo nella piantagione due uomini tagliano i caschi di banane. Uno di loro usa una tavola per proteggersi la spalla e ammortizzare il peso del carico. Trasporta a mano caschi che pesano tra 30 e 50 chili fino ai binari, dove li appende ai ganci. Il lavoro di queste persone è il più remunerato (30 dollari al giorno) ma anche il più duro. Quando ha completato il carico, il lavoratore deve trascinare una ventina di caschi con una catena agganciata alla cintura. “Queste persone sviluppano forti dolori lombari”, spiega Vargas. Il percorso è pieno di insidie. Le banane sono sospese in aria, ma gli stivali dei lavoratori scivolano sui ponti metallici privi di ringhiere.
“Prima c’erano carrelli alimentati a diesel che portavano le banane. Ma la certificazione Rainforest Alliance (sviluppo sostenibile e protezione ambientale) ha proposto di eliminarli per ridurre le emissioni di CO2. Ora gli incidenti sono più frequenti”, afferma Carlos Javier Quiroz Chavarría, segretario generale del sindacato dell’azienda Chiquita a Sixaloa, che difende metà dei 450 lavoratori della fabbrica. Né la Chiquita né Rainforest Alliance hanno risposto alle nostre domande.
La produzione delle tre multinazionali della banana a Sixaloa “è regolata da organismi di certificazione internazionale come Rainforest Alliance, GlobalGap e ScS Sustainably grown”, sottolinea Marcial Chaverri Rojas, dirigente della corporazione nazionale delle banane (Corbana) che rappresenta gli interessi dell’industria nella Costa Rica. “Questi organismi si assicurano che le banane destinate al mercato europeo rispettino le norme fissate dall’Unione europea sui pesticidi”.
Secondo Corbana, nelle parcelle riservate al mercato europeo i pesticidi vietati dall’Unione non si usano. Se residui di questi composti fossero trovati nei controlli effettuati in Europa, la Costa Rica potrebbe perdere un mercato enorme. “In realtà è difficile che appaiano delle tracce in Europa, perché le banane si raccolgono quando sono ancora verdi e arrivano sul mercato quaranta giorni dopo. A quel punto, i residui di pesticidi non si vedono più nelle analisi”, spiega Ramírez.
Corbana ha creato un proprio istituto di ricerca per migliorare le condizioni lavorative e ridurre l’impiego di pesticidi: “Dispone di equipaggiamenti e mezzi, ma le ricerche non vengono messe in pratica nelle piantagioni. Allo stesso modo la certificazione non ha mai fatto ridurre l’uso dei pesticidi”, afferma il ricercatore.
Di recente l’accademia delle scienze della Costa Rica ha dedicato un seminario al problema dei pesticidi nel paese. I ricercatori dell’Iret hanno illustrato i risultati dei loro studi. “Le nostre ricerche dimostrano che queste sostanze sono presenti a meno di cento metri dai terreni agricoli, ma possono raggiungere anche ambienti molto lontani”, dice l’ecotossicologa Silvia Echeverría Saenz. Tracce di pesticidi sono state trovate sui banchi di scuola, nei materassi e nelle cucine. Lontano dai terreni agricoli, sette pesticidi sono stati rilevati sul pelo dei bradipi, mentre nelle loro bocche c’erano tracce di cloro.
“Forse i consumatori europei non trovano tracce dei pesticidi più pericolosi nelle banane, ma la Costa Rica è piena di questi composti chimici adoperati nella produzione del frutto”, sottolinea Ramírez. Secondo la sua collega van Wendel de Joode, che vive nel paese centroamericano da venticinque anni, “il problema dev’essere affrontato a livello internazionale. Dobbiamo capire chi trae benefici da questa attività. Di certo non i lavoratori e neanche il pianeta”.
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