Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2000 nel numero 366 di Internazionale.

Che ne direste di una persona che si comportasse così: sempre al massimo, praticamente senza prendersi un minuto per riflettere; di umore instabile, dal sognante al frenetico, dal rabbioso al disperato; incapace di concentrarsi sull’impegno più urgente per più di qualche minuto (o qualche secondo); con sesso, soldi e potere sempre in testa; pronta a indebitarsi sempre di più per finanziare una frenesia di acquisti di oggetti superflui; assolutamente convinta che la felicità stia nella prossima distribuzione di azioni, nella prossima operazione di chirurgia estetica o nelle prossime vacanze in Messico?

Martin Seligman, professore di psicologia all’Università della Pennsylvania e presidente dell’American Psychological Association, pensa che gli Stati Uniti presentino questi sintomi e siano in preda ai tormenti di una “epidemia” di depressione clinica. Oggi un americano ha molte più possibilità di soffrire prima o poi di depressione, di quante non ne abbia avute in qualsiasi momento degli ultimi cento anni.

Tuttavia la depressione potrebbe essere solo la punta dell’iceberg di questo malessere. C’è qualcosa che non va a un livello fondamentale della vita di molte persone. Qualcosa che non sta tanto in ciò che ci succede quanto in ciò che non ci succede. Ci manca qualcosa. Qualcosa di essenziale e significativo che è stato scalzato da qualcosa di meno autentico. La possibilità che forze indipendenti dalla nostra volontà possano sopraffarci – addirittura cambiarci – è talmente spaventosa che la maggior parte di noi è impegnata a cercare una via d’uscita dall’ansia che ci attanaglia. Resistiamo grazie a un consumo record di medicine. Evadiamo nel mondo fittizio dei media e dell’intrattenimento. Accumuliamo distrazioni solo per scoprire (con buona pace di Leonard Cohen), che siamo “chiusi nella nostra sofferenza, sigillati nei nostri piaceri”.

Lo scambio faustiano

I situazionisti avevano individuato l’inizio di tutto questo già trent’anni fa. “Il pianeta è stato conquistato da una malattia”, scriveva Gilles Ivain. I sintomi: “La banalizzazione: niente più risate, niente più sogni. Solo un traffico senza fine, occhi spenti che ti superano per strada, una spazzatura da incubo che ci sta uccidendo. Tutti ipnotizzati dal lavoro e dalle comodità: il cassonetto dei rifiuti, la stanza da bagno, la lavatrice”. Nessuno ha ancora dichiarato di aver individuato con certezza le cause del malessere. Psicologi, sociologi, epidemiologi si chiedono se non si tratti di un piccolo virus che ci sta rendendo geneticamente fragili. O se si tratta di un malessere che ha a che fare con l’ambiente circostante: l’elettromagnetismo; le microonde nell’aria; un prodotto chimico nei cibi o nell’acqua che beviamo. Oppure i fattori economici e culturali causano uno stress che ci rende sensibili a problemi nuovi?

Le risposte a queste domande potrebbero sfuggirci per parecchio tempo. Ma per ognuno di noi che vive in Nordamerica e nel resto del mondo industrializzato già oggi si pone una questione faustiana, intima, quasi religiosa: che vantaggio c’è a vivere nei paesi più dinamici e più ricchi del mondo se questo significa sentirsi per la maggior parte del tempo tristi e ansiosi?

Bambini ceceni nel campo di profughi Alina, in Inguscezia, ascoltano Ded Moroz (Nonno Gelo, equivalente russo di Babbo Natale) e il suo compagno Fiocchetto di neve che leggono delle cartoline di auguri. (Musa Sadulaev, Ap)

Forse abbiamo ottenuto potere e benessere in cambio di – diciamolo – una parte della nostra anima? Nel momento preciso in cui vi ponete seriamente questo genere di domande, la facciata disinvolta e commerciale della vita moderna si sgretola immediatamente. Dietro emerge una trama di intrecci psico-socio-ciber-culturali. Perché sto male? Perché sono in ansia? Perché non posso amare? Perché non so come vivere e come morire?

Il paradosso è dolorosamente evidente: gli Stati Uniti godono di livelli senza precedenti di prosperità, di speranza di vita, di progressi medici, di abbondanza alimentare e di pace. La vita non è mai stata più ricca né più stimolante, eppure si rilevano segni mai visti di malinconia e di ansietà. Forse l’enigma ha in sé la sua risposta: il mondo moderno che ha permesso questi passi avanti è allo stesso tempo responsabile di quest’epidemia di tristezza.

In Cina i casi di depressione sono da tre a cinque volte meno frequenti che in Occidente. Nel mondo, la depressione aumenta più rapidamente tra i giovani e tra le persone ricche.

Gli psicologi Bernardo Carducci e Philip Zimbardo affermano, sulla base delle ricerche che hanno effettuato, che l’ipercommercializzazione della vita contemporanea, con la sua rapidità e le sue complessità, altera la natura delle interazioni quotidiane. “Più ci avviciniamo ai limiti della nostra capacità di gestire la complessità delle nostre esistenze, più siamo soggetti all’ansia. O affrontiamo la situazione, o scappiamo. E, di fatto, constatiamo contemporaneamente un aumento dell’aggressività, evidenziato da un generale degrado del comportamento sociale, e da un aumento della tendenza a ripiegarsi su se stessi”.

Aiuto, sono diventato ricco

In un sistema capitalista di consumo, osserva David Korten nel saggio When Corporations Rule the World (Le multinazionali guidano il mondo, 1996), siamo tutti più o meno trascinati verso il basso dalla spirale di un’alienazione sempre più profonda: la nostra ricerca di denaro approfondisce il fossato fra noi stessi, le nostre famiglie e le nostre comunità. La nostra crescente alienazione dà vita dunque a una sensazione di vuoto sociale e spirituale.

È su questo che intervengono i pubblicitari, assicurandoci che i loro prodotti ci aiuteranno a ritrovare la nostra pienezza. Andiamo a comprare i loro prodotti, che richiedono del denaro.

E ritorniamo, dunque, alla casella di partenza: la ricerca di denaro.La prosperità economica fa sì che certe persone diventino miliardarie praticamente da un giorno all’altro. La ricchezza straordinaria di quelli che si trovano al vertice della piramide crea un clima psicologico in cui, paradossalmente, tutti soffrono. I poveri in primo luogo, naturalmente, perché sono colti da gelosia di fronte a una felicità di cui ignoravano la mancanza fino a quando non hanno avuto l’opportunità di dare un’occhiata dal buco della serratura e di scorgere il lusso inimmaginabile in cui vivono le élite.

Babbo Natale nella metropolitana di Seoul, che ha dedicato un treno speciale al Natale. (Ahn Young-hoon, Ap)

Ma le élite patiscono a loro volta la situazione, anche se in maniera diversa. La “sindrome della ricchezza improvvisa” può colpire i nuovi ricchi sotto forma di una sensazione di isolamento e di incertezza, un po’ come se fossero stati proiettati in un mondo sconosciuto. Il benessere eccessivo conficca un cuneo nel cuore stesso di un paese ricco, seminando germi di senso di colpa e d’insicurezza su entrambi i lati della frattura.

Lo psichiatra austriaco Victor Frankl, morto nel 1998, si è occupato in particolare degli individui affetti da quello che chiamava il “vuoto esistenziale”. Non si tratta di una malattia mentale, bensì spirituale, in cui l’esistenza sembra assolutamente priva di significato. Si finisce per essere dominati da una sorta di cinismo paralizzante. Non si attribuisce più alcun valore a ciò che si fa e non si nutre alcuna speranza di fare qualcosa di valido in futuro.

Frankl pensava che il vuoto esistenziale che descriveva fosse una specificità moderna. Carl Gustav Jung, che l’ha scoperto in quasi un terzo dei suoi pazienti, rimarcava con i suoi contemporanei che si trattava di qualcosa di diverso da tutte le nevrosi che aveva avuto occasione di osservare fino a quel momento.

Aspiriamo disperatamente a trovare un significato. E andiamo a cercarlo nei centri commerciali. Abbiamo fatto nostra la fede nel discorso grandioso della scelta del consumatore, della crescita economica illimitata e del progresso tecnologico. David Orr, capo del programma di Studi ambientali all’Oberlin College, è convinto che quando le generazioni future guarderanno indietro a questa nostra ossessione per la ricchezza la troveranno patologica. Orr crede che intere società possano essere definite “dementi”, che avremmo bisogno di “una perestrojka ecologica mondiale” per portare alla luce la nostra follia collettiva e la nostra negazione al riguardo.

Il punto estremo

E così ci ritroviamo nella stanza degli specchi postmoderna. Un cinismo senza fine e la distruzione quotidiana dell’ambiente si adattano bene allo spirito postmoderno dei nostri tempi.

È difficile parlare del postmodernismo perché nessuno riesce a capirlo del tutto: il concetto è così inafferrabile che è praticamente impossibile definirlo. Ma in fondo, quello che enuncia questa filosofia è che abbiamo raggiunto un punto estremo della storia umana e che le tradizioni moderniste di progresso e di espansione senza fine dei limiti dell’innovazione sono morte.

Significa che l’originalità è morta. Che la tradizione delle avanguardie artistiche è morta. Che le religioni e tutte le visioni utopistiche sono morte. E che resistere allo status quo è impossibile perché la rivoluzione stessa è ormai una cosa morta. Che lo si voglia o meno, noi esseri umani siamo invischiati in una crisi perpetua del significato.

Il postmodernismo ci ha tagliato l’erba filosofica sotto i piedi per abbandonarci al vuoto esistenziale. E questo pone una sfida intellettuale alla prossima generazione di pensatori, a proposito dei quali speriamo che aprano la via a un postpostmodernismo. 

Un mondo nel quale non sia più tutto relativo, in cui ogni significato non sia più una semplice costruzione mentale sociale, in cui la fede non si riduca all’adorazione di un cantante o alla devozione servile a un mito monoteista, ma si traduca nella convinzione che esistono cose per cui vale la pena di vivere, e che queste cose sono più semplici e a portata di mano di quanto non si immagini.

Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2000 nel numero 366 di Internazionale.

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