Questo articolo è stato pubblicato il 2 giugno 2011 nel numero 900 di Internazionale

Nel febbraio 2010 ho pubblicato negli Stati Uniti il mio primo libro, The possessed: adventures with russian books and the people who read them. L’anticipo della casa editrice Farrar, Straus and Giroux, intorno ai cinquemila dollari, era piuttosto generoso per un libro autobiografico di saggi critico-letterari sulle esperienze di una dottoranda in letteratura russa. In edizione economica ha una copertina gialla firmata da Roz Chast, con le lettere del titolo scritte a mano in rosso shocking. Pur essendo una famosa vignettista del New Yorker, Chast è riuscita a conservare perfettamente l’estetica povera che caratterizzava il libro.

The possessed ha ottenuto buone recensioni, è rimasto due settimane nella lista dei best seller del New York Times ed è stato tra i finalisti di uno dei premi del National book critics circle. I vincitori dovevano essere annunciati a marzo, nel corso di una cerimonia che pensavo di disertare perché ora vivo in Turchia, perché non rimborsano il biglietto aereo e perché ero piena di faccende da sbrigare.

Avevo trascorso buona parte degli ultimi due mesi rintanata nel mio ufficio all’università di Koç, dove ho un incarico di writer in residence, lavorando a due articoli per una rivista: uno sugli appassionati di calcio a Istanbul, l’altro sugli appassionati di Dante a Firenze. Giorno e notte passavo dal calcio a Dante, da Dante al calcio, finché hanno cominciato a sembrarmi la stessa cosa. Questa fluttuazione interna si è aggravata, invece di attenuarsi, durante un viaggio a Londra, dove ho tenuto una conferenza al British museum sul tema “Cervantes, Balzac e la contabilità a partita doppia”.

La mattina dopo il mio ritorno sono andata dritta in ufficio, con la testa piena dei dubbi dei fact checker della rivista per cui scrivevo, tutti legati al calcio: il portiere danese Peter Kjær era stato aggredito o solo minacciato da un tifoso turco in sedia a rotelle? L’aquila nera del Beşiktaş era un uccello vero? E se sì, quale? Il pirata Barbarossa era esistito veramente? Cos’è un “pirata”? Mentre percorrevo il corridoio del dipartimento di studi umanistici, mi sono accorta che alle pareti c’erano diversi manifesti con la mia faccia. Pubblicizzavano una conferenza che avevo dimenticato di dover tenere la sera dopo agli studenti di Koç, sul tema “Il giornalismo letterario”.

Sentivo salirmi le lacrime agli occhi. Eravamo completamente circondati di critici

È stato allora che mia madre – a Manhattan – è scivolata sul ghiaccio e si è rotta il bacino. Era un segno di molte cose, tra cui il fatto che dovevo andare a New York. Ci sono rimasta solo una settimana, ma mi è sembrata una vita. La primavera si annunciava con piogge torrenziali. Ogni giornata cominciava con una piccola valanga di email ingiuriose dei tifosi della squadra del Fenerbahçe, di Istanbul. Ce l’avevano con me perché in un’intervista sul sito del New Yorker avevo citato un coro osceno contro il Fenerbahçe intonato dai tifosi del Beşiktaş, la squadra avversaria. Per via della differenza di fuso orario, ricevevo queste comunicazioni – per lo più inviti a succhiare diversi tipi di cazzi – la mattina presto. Così ne approfittavo per mettermi a scrivere di Dante per un paio d’ore. Alle 9.30 in punto, gli operai polacchi si mettevano al lavoro nell’appartamento al piano di sopra.

Ho trascorso la mattina della cerimonia al National book critics circle a trattare con quegli operai, che da due settimane piantavano i chiodi di una moquette sopra la testa di mia madre, costretta a letto. A ogni colpo di martello, il soffitto tremava e la foto incorniciata di Sigmund Freud pendeva sempre di più a destra. Stavano per cadergli le carte dalla scri-vania. Gli operai polacchi non erano del tutto insensibili, e alla fine li ho convinti a smettere. Ma per quanto tempo? Nessuno lo sapeva. In ogni caso, ho abbandonato mia madre e sono fuggita nell’albergo di Chinatown dove l’editore mi offriva molto gentilmente due notti. Attraverso la porta a vetri ho visto A, uno scrittore con cui avevo una storia. Ci eravamo presi e lasciati un sacco di volte, e non ci vedevamo da mesi. Alla vigilia della mia partenza per New York gli avevo scritto, sapendo che sarebbe venuto in pullman da Filadelfia, dove vive con la sua fidanzata. Se ne stava lì, vicino a una pianta di bambù. Con una rosa disfatta in mano, masticava una gomma e sembrava tutto preso da un opuscolo su come si comprano i diamanti. Amore e disperazione mi hanno invaso. L’imperturbabile adolescente cinese della reception mi ha consegnato una chiave magnetica.

Dieci minuti dopo l’inizio della cerimonia della premiazione, io e A eravamo sotto una pioggia battente davanti a un negozio cinese che vendeva solo spugne, alla ricerca di un taxi. Il nostro ombrello si è rovesciato all’indietro, poi si è rotto. Non c’erano taxi. Ci siamo incamminati sotto il diluvio verso Canal street. Incrociando un taxi fuori servizio parcheggiato davanti a un idrante, abbiamo offerto al conducente quattro volte il costo della corsa. Il tassista, che sembrava indiano, parlava al cellulare e ci ha lanciato un’occhiata angosciata dal finestrino rigato di pioggia, facendoci segno di andarcene. Abbiamo preso la metropolitana, siamo scesi alla fermata sbagliata e abbiamo percorso tre strade verso est, convinti di andare a ovest. Siamo arrivati alla New school con quaranta minuti di ritardo e completamente zuppi, soprattutto le scarpe.

Io non ho vinto, e mi andava bene. Il premio nella mia categoria, cioè la critica letteraria, è andato a Clare Cavanagh. Era un onore incredibile essere lì, come hanno detto tutti, insieme a Patti Smith e Jennifer Egan e agli altri meravigliosi finalisti e vincitori. Ma sarò sincera: al ricevimento non è andato tutto liscio. La mia agente, tanto per cominciare, non era per nulla contenta che mi fossi presentata oltre che clamorosamente in ritardo, anche con un ragazzo al seguito. E avevo solo due pass per il ricevimento. A chi sarebbe andato il secondo, a lei o al ragazzo? “Sarò felice di sostenere il National book critics circle”, ha detto mestamente la mia agente, aprendo la borsa.

Con due bicchieri di vino bianco in mano, io e la mia agente abbiamo parlato di alcuni problemi che avevo con l’addetto stampa inglese, al quale poco prima avevo scritto, sotto il martellamento degli operai polacchi, un’email che cominciava con “Caro Henry, sto soffrendo tanto, ma tanto…”. Per una serie di vie traverse, il messaggio è arrivato alla mia agente, che voleva sapere quale fosse esattamente il problema. Io ho cercato di spiegarglielo, il problema, ma qual era? Sentivo salirmi le lacrime agli occhi. Eravamo completamente circondati di critici. Critici che avevano opinioni su tutto, dalla distribuzione dei premi letterari ai vantaggi di una dieta macrobiotica.

Teresa Sdralevich

A un certo punto, siamo usciti di nuovo sotto la pioggia. Sei mesi prima avevo smesso di fumare, ma mi sono fermata a scroccare una sigaretta a un critico piazzato a portata di mano. “Credevo che avessi smesso”, ha detto la mia agente. Ci siamo incamminati verso il ristorante Middle Eastern, dove il mio editore dava una cena per i suoi tre finalisti: io, Jonathan Franzen e Damion Searls, che aveva tradotto Comedy in a minor key del romanziere olandese ultracentenario Hans Keilson, il quale invece non c’era. Davanti al ristorante, A teneva l’ombrello mentre aspiravamo a turno quello che restava della sigaretta umida.

“Ci vorrebbe un po’ d’erba”, ha osservato, dando il via a una discussione su chi, a cena, avrebbe potuto avercela. Noi scommettevamo su Franzen. Io non vedevo l’ora di conoscerlo, anche se ero un po’ preoccupata. Il fatto è che nessuno diventa scrittore grazie alla sua disinvoltura nei rapporti sociali e alla parlantina facile. Cosa puoi dire a una persona così? Soprattutto se anche tu sei una persona così?

La partenza è stata morbida. “Sono una tua grande ammiratrice!”, ho esclamato. “La cosa è reciproca”, ha risposto Franzen, spiegando che aveva regalato il mio libro per Natale a diverse persone, anche se non l’aveva ancora letto. “Però ho letto dei pezzi!”. Io gli ho detto che avevo adorato Libertà, cosa che è vera e che sarebbe stata un’ottima conclusione della nostra conversazione. Quindi è difficile spiegare esattamente cosa mi sia preso quando, dopo un momento più alcolico della cena, ho chiesto a Franzen se avesse dell’erba. Un po’, ero curiosa di sapere se ne avesse. E un po’, nonostante la grande stanchezza e una leggera antipatia congenita per l’erba, non resistevo alla tentazione di entrare fugacemente in contatto con un mondo parallelo che riuscivo appena a intravedere, in cui la serata proseguiva in modo diverso e molto più rilassato.

“Erba?”, ha ripetuto l’agente di Franzen. “Quale erba?”.
“Non erba-erba. Erba”.
“Marijuana”, ha spiegato la mia agente.
“Ne ho un po’ nel freezer”, ha detto Franzen. “Ma abito dall’altra parte della città”.

La serata ha cominciato a svolgersi sempre più rapidamente, come un rocchetto di filo. A e la mia agente discutevano se avrei dovuto assumere uno scrittore squattrinato come assistente personale. La mia agente pensava che gli scrittori, con le loro doti comunicative, fossero degli ottimi segretari, mentre secondo A non c’era da fidarsi che una volta lasciato il lavoro non spifferassero tutto in un’autobiografia.

“Con gli scrittori non si sa mai”, ha detto A. “Bisogna tenerli d’occhio”.
“Gli scrittori sono tremendi”, ho concordato. “Voi non li conoscete come noi”.
“Faccio questo lavoro da quindici anni”, ha detto lei, con il tono di chi ha avuto una giornata pesante.

A quel punto, Franzen si è voltato verso di me: “È vero che sei alta un metro e ottantadue?”, ha chiesto. Si trattava di una precisa allusione al mio primo libro, Babel in California, un saggio in cui c’è una mia conversazione con un professore secondo il quale non potrò mai capire fino in fondo L’armata a cavallo di Isaak Babel’ per via dell’“alienazione tipicamente ebraica” del narratore. Al professore rispondevo: “Certo, se parliamo di alienazione, una turca americana di prima generazione cresciuta nel New Jersey e alta un metro e ottantadue non ne saprà mai quanto un ebreo americano basso”.

“Uno e ottanta”, ho detto a Franzen.
“Sei sicura?”, ha chiesto.

Be’, non ero sicura. Quando mi hanno misurato al college ero un metro e ottantuno, ma alla scuola di specializzazione risultavo un metro e ottanta. Probabilmente mi stavo rattrappendo. “Ho la scoliosi”, ho ammesso. “E passo tutto il giorno seduta al computer”.
“Fatti misurare di nuovo”, mi ha consigliato Franzen. “Io avrei detto un metro e settantotto”.

Un metro e settantotto: poco più alta di Patty Berglund, la protagonista di Libertà, che si sente un gigante per tutta l’infanzia, finché non comincia a giocare a basket e scopre di essere la più bassa della squadra.

“Non sono considerata alta”, dice Patty a Richard Katz, il suo diabolico interesse amoroso.
“Eppure sei piuttosto alta”, risponde Katz.

The possessed non è il libro che volevo scrivere: non è come avrei voluto scriverlo

Quando ho guardato Franzen, mi è sembrato che non volesse veramente dirmi di farmi misurare, così come io non avrei voluto veramente chiedergli se aveva dell’erba. Perché ci stavamo dicendo quelle cose? Perché non parlavamo di Guerra e pace, di come affrontare la vita, di come conciliare la passione erotica con la vita di tutti i giorni?

Ero giovane quando ho scritto Babel in California. “Certo, se parliamo di alienazione, una turca americana di prima generazione cresciuta nel New Jersey e alta un metro e ottantadue non ne saprà mai quanto un ebreo americano basso”. Non scriverei mai una cosa del genere, oggi. Non avrei mai scritto una cosa del genere se non fossi stata una dottoranda che girava in bicicletta, si addormentava nelle biblioteche, viveva di lenticchie e si sentiva, a torto o a ragione e nonostante l’autentica gentilezza e generosità di molti miei professori, perennemente in conflitto con un mondo che mi considerava impreparata – per età, se non per nazionalità o qualcos’altro di ancora più sinistro – ad affrontare i grandi narratori della condizione umana.

Babel in California è stato pubblicato nel 2005 sulla piccola – allora microscopica – rivista n+1. È capitato sotto gli occhi del direttore del New Yorker, che nel 2006 mi ha commissionato il mio primo articolo: il ritratto di un campione tailandese di kick boxing che aveva aperto una scuola a San Francisco. A quel punto, ho cominciato a ricevere email da agenzie letterarie. Ho scelto la mia agente, che mi piace molto. Secondo lei, il mio primo libro doveva essere un saggio sulle arti marziali miste femminili che cominciavano ad affermarsi in America. Io, però, mi ero messa in testa di scrivere una versione dei Demoni di Dostoevskij, ambientata in un dipartimento di letteratura tipo quello di Stanford.

Da punti di partenza così lontani abbiamo cominciato a negoziare l’argomento del libro. Un thriller sul Canto della schiera di Igor? Un anno nella vita di Balzac? Sono volati via tre anni, duranti i quali ho finito la mia tesi sulla contabilità a partita doppia e il romanzo, e ho pubblicato altri saggi di letteratura russa. Alla fine, il raffinatissimo direttore americano di The Paris Review, Lorin Stein, mi ha fatto presente che avevo già scritto buona parte di un libro: una raccolta di saggi che erano anche un’autobiografia. Così, ho scritto qualche capitolo nuovo, rimaneggiato l’idea del romanzo di Dostoevskij, e ne è venuto fuori The possessed.

The possessed non è il libro che volevo scrivere: non è come avrei voluto scriverlo. Dopo la sua pubblicazione, la mia vita è cambiata completamente. Non mi ero mai trovata tanto vicina a un microfono di una radio o a fissare l’occhio fallico di una videocamera. Mi era già capitato di ricevere lettere dai lettori, ma mai così tante e varie. Ricordo soprattutto il mio primo servizio fotografico per una rivista, in cui dovevo stare distesa sulla schiena su un pezzo di finta pelliccia verde fosforescente, stringendo al petto un libro di Dostoevskij in russo. Il fotografo stava in cima a una scala, sopra di me, e scattava le foto. Mentre guardava lo schermo digitale attraverso spessi occhiali di plastica, la sua assistente ha sentenziato che le immagini erano “troppo sensuali”. Diceva che mostravo “troppo collo”. Vincendo un senso di ingiustizia – se non fossi stata distesa sulla schiena su una specie di tappeto di pelliccia da film porno, forse il mio collo non sarebbe sembrato così sensuale – mi sono messa una maglietta più accollata. Siccome la copertina di Dostoevskij era troppo marrone, abbiamo optato per un’edizione in similpelle verde di Puškin. “Fai la faccia di una che sta leggendo”, mi ha suggerito il fotografo. Aprendo il libro a caso, mi sono trovata di fronte all’ultimo verso del poema Gli zingari: “Non v’è difesa dai fati”.

Tornando in albergo a Chinatown, traballando accanto ad A in un vagone della metropolitana, mi sono ritrovata a riflettere sulla vita dello scrittore. “Prima, deve subire la povertà e l’indifferenza del mondo. Poi, quando ha raggiunto un certo successo, deve accettarne di buon grado i rischi”, come scrive Somerset Maugham in Lo scheletro nell’armadio. “È alla mercé di giornalisti che vogliono intervistarlo, fotografi che vogliono la sua foto, redattori affamati di pagine… agenti, editori, impresari, seccatori, ammiratori, critici, e della sua coscienza”.

Il protagonista di Lo scheletro nell’armadio, Edward Driffield, è uno scrittore superfamoso di famiglia operaia che scrive romanzi naturalisti ed è sposato con una barista dal cuore d’oro e sessualmente generosa. Con la notorietà, Driffield comincia ad allontanarsi lentamente ma sistematicamente dalla barista, la cui esclusione prima dalla sua vita poi dalla sua biografia illustra il senso profondo del romanzo: quando uno scrittore raggiunge un qualsiasi grado di successo finisce sempre per perdere la cosa che lo aveva originariamente spinto a scrivere. Il giovane scrittore è qualcuno che il mondo ha rifiutato, ignorato o esasperato. Qualcuno abituato alla “povertà e all’indifferenza del mondo”: abituato, com’era Franzen prima di finire sulla copertina di Time, a lavorare in uno studio minuscolo, con un paraorecchi, su una sedia tenuta insieme con il nastro adesivo. In senso più generale, questo essere in conflitto con il mondo fornisce sia la motivazione sia il contenuto della maggior parte dei primi scritti.

Questo mese, The possessed è uscito in Gran Bretagna, in un’edizione rilegata estremamente elegante disegnata da Michael Salu, con motivi prerivoluzionari e un’illustrazione in cui io gioco a tennis con Tolstoj.

È strano aver promosso lo stesso libro per più di un anno, e poi vedere quello stesso libro, come oggetto fisico, così cambiato. Lo so che questo cambiamento è qualcosa con cui tutti gli scrittori, se sono fortunati, devono venire a patti: si comincia ai margini, e si migra al centro. Si invecchia (uno splendido saggio di Kathryn Feuer su Guerra e pace sottolinea il fatto che Tolstoj quando scrisse quel romanzo era un ragazzo). So che la fortuna raramente si manifesta nei modi che ci aspettiamo e quando arriva non è bello continuare a lamentarsi: “Ma io sento che la mia vita è ancora un caos! Sono ancora un’outsider! Ancora la più giovane!”.

Ora sono tornata al campus di Koç, in un bosco che si trova a venti chilometri dal centro. La mia finestra si affaccia sul mar Nero. C’è una grande pista di pattinaggio su ghiaccio. Ho cominciato a pattinare.

Qualche tempo fa mi sono accorta che molti scrittori di mia conoscenza tendevano a lasciare il paese dopo il primo libro di successo. Prima non lo capivo, ora sì. Trasferirsi all’estero aiuta a conservare, in qualche modo, un’estetica dello spaesamento. Eppure, per quanto lontano tu possa andare, certi fatti sono ineludibili. All’inizio, sei giovane e sconcertato dalle cose che vedi, poi all’improvviso sei tu a sconcertare i giovani: glielo leggo in faccia.

Non ho molti obblighi all’università, ma m’intervistano molto. La settimana scorsa ho incontrato due studenti, una ragazza e un ragazzo, del giornale di Koç. Era la ragazza a fare quasi tutte le domande, appuntate su un quaderno. Ogni tanto lasciava che mi chiedesse qualcosa anche il ragazzo. Lui le domande le aveva imparate a memoria, formulate in un elaborato inglese colloquiale. “Diciamo la verità: succede anche ai migliori”, recita guardandomi negli occhi. Era una domanda sul blocco dello scrittore. E poco dopo: “Mettiamo che stia scrivendo un testo lungo. Di quelli che ci vogliono mesi, anche anni. Come fa a mantenere una coerenza stilistica?”. La ragazza, che fino a quel momento era sembrata poco interessata alle domande del collega, ha subito drizzato la schiena. “Giusto! Crescendo si cambia. Come fa a difendere la sua scrittura da quel cambiamento?”.

Per la prima volta dopo tanti anni mi è tornato in mente com’era quando ti preoccupavi della coerenza, di trovare un equilibrio tra le tue influenze letterarie e la tua scrittura, di restare te stesso. A un certo punto, impari. Poi, il difficile è riuscire a cambiare.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è stato pubblicato il 2 giugno 2011 nel numero 900 di Internazionale

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