Patrick Dabbagh aveva vent’anni ed era timido, poco interessato a partecipare alle manifestazioni contro il regime che agitavano la Siria da un paio d’anni. Il 3 novembre 2013 è stato prelevato da casa sua, a Damasco, da agenti del servizio informazioni dell’aeronautica, uno dei più spietati del regime. Il giorno dopo è stato arrestato anche suo padre, Mazen. Un testimone, arrestato con loro e poi rilasciato, li ha visti il giorno successivo nella sede del servizio all’aeroporto militare di Mezzeh. Poi sono scomparsi nel nulla.
I loro cari hanno dovuto aspettare fino al 2018, quando la burocrazia siriana ha pubblicato ottomila certificati di morte di prigionieri, per conoscere il destino di Patrick e Mazen. Sarebbero morti rispettivamente il 21 gennaio 2014 e il 25 dicembre 2017. Nessuno può verificare le date. Nessuno sa dove sono sepolti. E nessuno sa neanche il motivo del loro arresto: un caso, una denuncia, un errore?
Eppure oggi, a distanza di più di dieci anni dalla loro scomparsa, finalmente qualcosa si sa. Il 24 maggio un tribunale parigino ha stabilito che i responsabili della scomparsa, del sequestro, della tortura e della morte di Mazen e Patrick Dabbagh sono tre alti funzionari del regime siriano – Ali Mamlouk, Jamil Hassan e Abdel Salam Mahmoud – che sono stati condannati all’ergastolo, in contumacia, per complicità in crimini di guerra e contro l’umanità.
A dare avvio al processo è stata la denuncia presentata da Obeida Dabbagh, fratello di Mazen e residente in Francia, insieme ad alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Mazen e Patrick Dabbagh infatti avevano la doppia cittadinanza, siriana e francese. Mazen, ultimo di cinque fratelli e nato nel 1959, era l’unico della sua famiglia di origine rimasto a vivere in Siria. Perfino la madre, Christiane, aveva lasciato il paese, diventato troppo instabile, nel 2012. Mazen abitava nella casa di famiglia di Damasco con la moglie e i figli. Nel 2016 la casa è stata confiscata in seguito a un ordine di esproprio pronunciato da un tribunale militare. Ci è andato a vivere Abdel Salam Mahmoud, uno dei tre imputati.
Le Monde definisce il verdetto del 24 maggio “storico”, nonostante l’assenza dei tre accusati e la loro volontà di non essere rappresentati dagli avvocati. Infatti è la prima volta che sono giudicati funzionari così alti del regime siriano. La sentenza inoltre richiama l’attenzione sull’arma più spietata usata dal regime per reprimere la popolazione, sottometterla e disgregarla: le sparizioni forzate.
Come riferisce l’articolo di Mediapart che pubblichiamo nel prossimo numero di Internazionale, secondo la Rete siriana per i diritti umani 112.713 persone sono scomparse in Siria dall’inizio della rivoluzione, nel marzo 2011, e nell’86 per cento dei casi il responsabile è stato il regime di Assad.
Il verdetto è stato applaudito dai rifugiati e dagli attivisti siriani che riempivano l’aula del tribunale. Alcuni di loro sono impegnati a rintracciare i criminali siriani in Europa e portarli davanti alla giustizia di vari paesi. Si basano sulle testimonianze degli uomini e delle donne passati per le carceri siriane e sulle migliaia di immagini di cadaveri portate fuori dalla Siria da Caesar, nome in codice di un fotografo militare disertore, che hanno rivelato al mondo gli orrori del regime.
Il loro obiettivo è favorire lo svolgimento di altri processi contro i responsabili che ricoprono ancora le più alte cariche dello stato siriano. Per fare in modo che possano arrivare nuove condanne per mettere fine all’impunità e dare speranza alle vittime e ai loro familiari. E soprattutto mantenere viva la memoria delle persone sparite negli ingranaggi della macchina della morte del regime.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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