Bob Dylan ha vinto il premio Nobel per la letteratura. L’accademia di Svezia l’ha premiato “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana”. Una scelta coraggiosa.

Se c’era qualcuno da premiare, nel mondo della musica leggera, quello era sicuramente il musicista di Duluth. Bob Dylan è il cantautore per eccellenza, l’uomo che negli anni sessanta ha rivoltato come un calzino il concetto di folk, rock, canzone d’autore e per primo ha abbattuto i confini tra musica, poesia e letteratura.

Bob Dylan è stato un personaggio molto contraddittorio. Paladino dei movimenti per i diritti civili statunitensi, ha marciato insieme a Martin Luther King e cantato contro la guerra in Vietnam. Ma poco dopo si è distaccato da questa realtà, quasi infastidito per il ruolo di menestrello che gli avevano cucito addosso. Ha smesso di cantare di politica e ha cominciato a cantare l’Io, flirtando con il rock e la psichedelia, attirandosi addosso l’ira dei puristi. E poi è invecchiato bene, continuando a scrivere grandi canzoni, pur da una prospettiva un po’ più conservatrice.

Riassumere la sua carriera in sole sette canzoni è un’impresa quasi impossibile, ma ci provo.

A hard rain’s a-gonna fall (1962)
Il 22 settembre del 1962 Bob Dylan si esibisce alla Carnegie Hall di New York. Tra i tre brani che presenta ce n’è uno ispirato a Lord Randall, una vecchia ballata della tradizione folk britannica. Il pezzo si intitola A hard rain’s a-gonna fall. Ha un tono quasi biblico e dipinge un mondo ingiusto e in rovina, mentre denuncia l’arrivo di una pioggia violenta. Allen Ginsberg ha raccontato che quando sentì per la prima volta A hard rain’s a-gonna fall si mise piangere. “Sembrava che la torcia fosse stata passata a una nuova generazione”, ha raccontato a Martin Scorsese nel documentario No direction home.

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Subterranean homesick blues (1965)
Il blues secondo Bob Dylan. Questo pezzo è breve e diretto. Ha una forza quasi punk. Dylan non canta, urla. Dentro le sue strofe caotiche c’è tutto il fermento della beat generation, ci sono Kerouac (il suo romanzo I sotterranei è omaggiato nel titolo) e Ferlinghetti. C’è la voglia di riscatto dei giovani statunitensi, pronti ad avviare una stagione di protesta. Memorabile il verso “you don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (non hai bisogno del metereologo per sapere da che parte soffierà il vento), diventato un inno della sinistra radicale statunitense.

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Like a rolling stone (1965)
Basta ascoltare quel colpo di rullante che apre il pezzo come un colpo di fucile per capire l’importanza di Like a rolling stone. Quando uscì, nel 1965, questa canzone fu uno spartiacque. Non si contano i musicisti che l’hanno omaggiata a parole e con la musica, da Jimi Hendrix ai Rolling Stones, da Bruce Springsteen a Bob Marley. Like a rolling stone è un fiume emotivo della durata di 6 minuti e 13 secondi che racconta la storia di una donna caduta in disgrazia, “with no direction home”. Un “getto di vomito”, come l’ha definita il suo stesso autore. Menzione speciale per Al Kooper, il chitarrista che si infilò di nascosto in sala di registrazione, improvvisandosi organista, e inventò il riff che si sente nel ritornello.

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Desolation row (1965)
Ognuno ha la sua canzone preferita di Bob Dylan. La mia è questa. Desolation row dura undici minuti e ha un arrangiamento minimalista: due chitarre acustiche e la voce di Bob. È forse la miglior performance canora della sua carriera. Più che di canzone in realtà dovremmo parlare di ode, di elegia. Desolation row è un affresco. Cenerentola, Caino e Abele, Ofelia, il Gobbo di Notre Dame, “T.S. Eliot e Ezra Pound che combattono sulla torre del capitano”: sembra quasi di esserci, in mezzo a questa carrellata di maschere surreali, “commentate” dalle pennate di chitarra del sessionman Charlie McCoy. Fabrizio De André ne ha fatto una versione italiana, tradotta da Francesco De Gregori, intitolata Via della povertà.

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Stuck inside of Mobile with the Memphis blues again (1966)
Il genere di canzone che i puristi del folk consideravano spazzatura e che li portava a gridare “Giuda” a Dylan quando si esibiva accompagnato da una band elettrica. In realtà sono proprio i brani come questo che rappresentano la bravura di Dylan, la grandezza sfuggente del suo genio. Stuck inside of Mobile with the Memphis blues again è un bozzetto surreale, pubblicato sul capolavoro Blonde on blonde e scritto probabilmente sotto l’effetto di droghe psichedeliche. Non è blues, non è folk, non è rock. È Dylan. È citata nel romanzo Paura e disgusto a Las Vegas, scritto dal giornalista gonzo Hunter S. Thompson, e fa da colonna sonora al film Io non sono qui di Todd Haynes.

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Tangled up in blue (1975)
Per il disco, più che per la canzone. Blood on the tracks è, secondo molti fan, l’album più bello di Bob Dylan. Una posizione contestabile, perché non è sicuramente il suo lavoro più innovativo. Però bisogna ammettere che è una raccolta di canzoni impeccabili, che avrebbero fatto la fortuna di qualsiasi altro cantautore. Tangled up in blue, il brano che apre il disco, è il racconto di una tormentata storia d’amore ispirato al fallimento del matrimonio con Sara Lownds. Questa versione dal vivo, registrata durante la tournée Rolling thunder revue, è una delle migliori.

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Not dark yet (1997)
Nella sua carriera, Bob Dylan è stato tutto e il contrario di tutto. Cantore dei diritti civili, cantautore affascinato dalla psichedelia, contadino country in coppia con Johnny Cash, ateo, cristiano infervorato (come ci ricorda la sua terribile trilogia religiosa formata da Slow train coming, Saved e Shot of love). Ma nonostante le sue contraddizioni Dylan ha continuato, anche da vecchio, a scrivere grandi canzoni. Not dark yet, contenuto nell’album del 1997 Time out of mind, è un pezzo sulla morte. Rispetto ad altri grandi brani di Dylan è insolitamente etereo, minimalista. Sembra il suo testamento musicale.

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Se interessa, ho raccolto le sette canzoni di Bob Dylan in una breve playlist su Spotify. E qui ci sono sei cover fatte da artisti importanti.

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