Grande specialista di islam, Olivier Roy ritiene che i taliban si siano politicamente evoluti e ora cerchino prima di tutto un riconoscimento internazionale. In questa lunga intervista, il politologo esprime il suo punto di vista sulla strategia e la posta in gioco della loro recente presa del potere.
Il violento degradarsi della situazione a Kabul era prevedibile? Abbiamo sottovalutato i taliban?
L’ascesa dei taliban era prevista e prevedibile ed è stata perfino accompagnata, visto che gli statunitensi negoziavano con loro con l’idea che avrebbero avuto la maggioranza nel prossimo governo. Quel che ha sorpreso tutti, a cominciare dagli statunitensi, è stato il collasso dell’esercito afgano in pochi giorni. Sappiamo perché ciò sia successo, ma la rapidità di tale processo è stata una sorpresa.
Perché è collassato?
È successo un po’ come per la Francia nel 1940: dal momento in cui comincia a crollare tutto un sistema, il resto vien da sé.
Ma abbiamo sottovalutato la strategia dei taliban?
Sì. Pensavamo, in fondo, che puntassero essenzialmente a una tecnica di usura, e che non avessero alcuna strategia offensiva. Che preferissero semplicemente sfruttare il crollo del regime e la partenza degli statunitensi. E che avrebbero accettato una transizione politica che gli costava meno cara e che gli avrebbe evitato lo sforzo della guerra. Ci siamo accorti che avevano una strategia quando, qualche settimana fa, hanno cominciato a occupare le postazioni di frontiera e a chiudere alcuni varchi. In maniera intelligente. Hanno conquistato tutte le posizioni da cui passano gli approvvigionamenti dell’Afghanistan. In maniera coordinata. A Kandahar, a Herat ma anche alla frontiera con il Tagikistan. Poi hanno cominciato a conquistare, una per una, le capitali provinciali.
Corrompendo le milizie locali.
È un altro aspetto. E non necessariamente corrompendole, peraltro. La faccenda è più complessa. Si sono consultati con i capi che conoscevano. Parliamo di una società caotica, certo, ma che è strutturata. Le persone hanno delle relazioni, rapporti di vicinato, matrimoniali, tribali, di clan e così via. I taliban hanno sfruttato la dinamica del collasso garantendo un’uscita di scena onorevole agli altri attori. Promesse di denaro, amnistia, cooptazione. Ha funzionato perché già funzionava così, in realtà. Non ci sono da un lato i terroristi islamisti cattivi e dall’altra la povera popolazione afgana martirizzata. C’è una società che ha le sue regole, dove le persone si uccidono, ma nella quale funziona anche un sistema di alleanze che non corrispondono a regole ideologiche.
Si tratta comunque di una sconfitta cocente per tutto l’occidente.
Sì, la sconfitta è nell’impossibilità di costruire uno stato stabile in Afghanistan. È questa la sconfitta fondamentale.
Lo sapevamo…
Sì, la questione è tutta lì. Perché non ci siamo accorti che le cose sarebbero andate così? Le possibilità sono due. O l’intelligence militare non funzionava, e gli statunitensi non si sono accorti che l’esercito afgano non esisteva. Oppure lo sapevano perfettamente ma, per motivi politici, hanno deciso di non dichiararlo.
Lei predilige questa seconda ipotesi?
Sì, è un classico. Dal basso arrivano rapporti molto lucidi che, per motivi politici, vengono fatti passare sotto silenzio.
I taliban si sono evoluti?
Si sono evoluti politicamente, ma sociologicamente non credo. Esiste una continuità nella classe dirigente perché tutti i leader odierni erano già là ai tempi del mullah Omar, vent’anni fa. Al contrario, è ragionevole credere che si siano evoluti politicamente. Nel 2011, a Parigi, ci sono stati alcuni negoziati tra afgani e io facevo parte della delegazione francese. I taliban erano presenti all’ultima riunione. Erano propensi a partecipare al negoziato. Perché hanno tratto alcune lezioni dal 2001.
Quali?
Di fatto, nel 2001, è stato l’11 settembre a determinare la loro sconfitta. Altrimenti sarebbero ancora al potere. Contrariamente a quanto si è fatto credere, non siamo intervenuti per salvare le donne afgane, ma per vendicare l’11 settembre e uccidere Bin Laden. In seguito è stato necessario evitare il ritorno dei taliban e creare uno stato stabile. Ma l’insuccesso era chiaro fin dall’inizio. Uno dei motivi principali è la corruzione.
A tutti i livelli?
È una corruzione di proporzioni enormi. Gli Stati Uniti hanno riversato miliardi di dollari in uno dei paesi più poveri del pianeta. È facile immaginarsi cosa sia successo… I comandanti statunitensi venivano paracadutati in Afghanistan con valigie piene di dollari. Tutto era in vendita. Una classe politica corrotta si è impadronita del paese. Sappiamo che l’ex presidente Hamid Karzai ne faceva parte. L’attuale presidente no, ma non si è battuto contro questa piaga.
Quali lezioni avrebbero tratto i taliban dal punto di vita della minaccia terroristica, in particolare per noi occidentali? L’Afghanistan è di nuovo un rifugio per le organizzazioni terroristiche o no?
No, per l’appunto. I taliban hanno capito, secondo me, che era questa la condizione della loro normalizzazione. Hanno vinto, certo, e potrebbero tranquillamente ignorare tutte le promesse che hanno fatto. Ma, secondo me, non lo faranno. Mirano a una normalizzazione sul piano internazionale, vogliono essere riconosciuti come un governo legittimo. È per questo che il paragone con Saigon e la fuga dal Vietnam non funziona.
Che cosa chiedono?
I taliban stanno chiedendo agli ambasciatori di restare. Se s’impegnano a non accogliere organizzazioni terroristiche internazionali, allora il loro governo sarà riconosciuto. E le donne afgane finiranno nel dimenticatoio. Credo quindi che faranno alcune concessioni sulle questioni di sicurezza, per avere le mani più libere in Afghanistan.
Che ruolo svolge il Pakistan oggi?
Ha sostenuto i taliban fin dall’inizio. Da 25 anni mantenere i taliban al potere a Kabul è un’ossessione dei servizi d’intelligence pachistani. Non voglio sbilanciarmi, ma non mi stupirebbe se il piano di chiudere le frontiere e conquistare le capitali provinciali sia stato concepito dai pachistani.
E la porosità con la frontiera pachistana non è appunto una fonte di pericolo terrorista?
Sì, certamente. Ma i pachistani hanno un problema con i loro, di taliban. Nessuno, in ogni caso, controllerà la zona di frontiera.
Condivide l’immagine dell’Afghanistan come tomba degli imperi?
È corretta. Si tratta di un paese molto particolare, con tradizioni guerriere. Il paradosso è che ciò che fa la forza di questo paese è anche la sua debolezza. Tutte le sue divisioni tribali, di clan, geografiche, familiari, ne fanno un paese governabile solo attraverso una relazione flessibile tra il centro e la periferia. La monarchia afgana, tra il 1933 e il 1973, c’era riuscita. Ci sono stati quarant’anni durante i quali essa era riuscita a trovare quest’equilibrio. È stata in realtà la guerra fredda a sconvolgerlo, le tensioni tra statunitensi e russi. In seguito i russi hanno fatto l’errore d’invadere e, dopo di loro, gli statunitensi hanno fatto lo stesso errore. Nessuno è riuscito a creare un potere centrale stabile.
I cinesi non invaderanno?
Assolutamente no! I cinesi vogliono due cose. Che gli afgani non sostengano gli uiguri, e credo che abbiano tutte le garanzie dei taliban in tal senso. E poi vogliono le materie prime: rame e altro. Hanno acquistato delle enormi concessioni. Ma il ragionamento dei cinesi è che poco importa chi governi a Kabul, il paese non è comunque controllabile.
Il patrimonio culturale afgano è di nuovo in pericolo?
Di fatto sì. Non a causa delle tendenze iconoclaste dei talebani, i quali penso saranno più prudenti. Ma per semplice incuria. Il passato pre-musulmano non li interessa. Lasceranno che il saccheggio continui, come accade dal 2001.
I taliban avranno mano libera su gran parte del territorio afgano o dobbiamo aspettarci una guerriglia incessante?
Ci sono due possibilità. La prima è una situazione simile alla fine degli anni novanta, quando i taliban non riuscivano a controllare le roccaforti dell’opposizione, in particolare il Panshir. Se questa regione resisterà, non avranno grossi problemi ad accerchiarla. Tanto più che nessun paese paracaduterà delle armi al successore di Massud. La Russia vuole solo una cosa, che taliban garantiscano la frontiera con l’Asia centrale, e lo faranno. La seconda è che i taliban vengano superati a destra, da gruppi ancor più radicali. Come quelli che rivendicano la loro appartenenza al gruppo Stato islamico, che sono già presenti sul territorio. Si può credere che i taliban faranno tutto il possibile per schiacciarli, perché non possono accettare una concorrenza. Ma allo stesso tempo i pashtun dell’est rischiano d’installare sul territorio nuove aree di rifugio per il terrorismo.
E quindi di minacciarci direttamente?
Sì ma, paradossalmente, i taliban sarebbero dalla nostra parte.
Riusciranno a tenere Kabul?
Nella capitale c’è molta povertà, ma la città si è molto occidentalizzata. La società è moderna, c’è internet, a differenza del 2000. Se i taliban riprenderanno i loro vecchi metodi, la città sarà per loro un osso duro.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato su Ouest-France.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it