Da quando vivo a Ouagadougou, ho l’abitudine di passeggiare nelle sue strade la sera molto tardi, quando la città si svuota. Una sera mi perdo nelle strade di Pissy, un quartiere popolare nella parte ovest della capitale. All’improvviso sento un odore di fumo acre, che mi stringe il naso e la gola. Per la prima volta entro in contatto con la cava di granito di Pissy, che dà lavoro a molte famiglie della zona.
Ci torno la mattina dopo. Vedo, in fondo a un sentiero di terra rossa, delle piramidi di pietre bianche e di sabbia setacciata. Alcuni camion. Un nugolo di bambini, alcuni di loro annunciano il mio arrivo. Corrono dietro di me e urlano: “Nasara! Nasara!”, che significa “la bianca”. Si mettono in fila indiana davanti a me. Uno di loro viene a salutarmi: incrocia le braccia sul petto piegando leggermente le ginocchia. Un altro lo imita. Questa forma di saluto è un segno di rispetto e umiltà, rivolto a “coloro che ti superano”, mi ha spiegato un’amica. Glielo insegnano a casa o a scuola. Il gesto non è riservato ai “bianchi” ma agli adulti in generale.
All’inizio mi sento intimidita. Mi siedo al bancone di un chiosco che serve caffè: è un’enorme scatola metallica blu poggiata su un sentiero di terra. Saluto con un sorriso. Poi mi metto a fissare lo schermo della televisione. Uomini e bambini sono impegnati a guardare un vecchio film con Jackie Chan. Mi unisco a loro. Mamoudou, il proprietario, mi dà il benvenuto e mi serve un sacchetto d’acqua. Un adesivo con il volto di Gheddafi e un altro con quello di Ronaldinho sono incollati al frigo.
Mamoudou compra anche il granito. Lo rivende a privati e imprenditori. Pensa che io sia lì per comprarne un po’. Gli spiego cosa mi ha portato da quelle parti e il mio lavoro di giornalista. Gli rivelo che non sono di passaggio ma che vivo a Ouagadougou. Rassicurato, m’incoraggia a portare avanti il mio progetto.
Mamoudou m’accompagna nella cava per presentarmi ai lavoratori. Attraverso alcune file di capanne che vengono montate la mattina e smontate la sera. Una donna pianta una fragile canna di bambù e la ricopre con un lembo di tessuto consumato. Ogni mattina mettono su queste piccole capanne per proteggersi dal sole. Poco più avanti alcune donne scavano nel terreno. Hanno dieci chili di pietra sulla testa. Alcune trasportano anche i loro bambini sulla schiena.
Attrazione turistica
Vista dall’alto la cava somiglia a un abisso profondo varie decine di metri. La prima volta che entro in questa buca, mi sento soffocare. Intravedo alcune sagome che attraversano delle nubi polverose: sono i gas tossici rilasciati dagli pneumatici che vengono bruciati per rendere la pietra più fragile prima di romperla. Sento alcuni lavoratori tossire tra i rumori assordanti dei colpi di martello e piccone. La maggioranza delle persone che lavorano qui non ha maschere di protezione né guanti. Mentre scende un pendio sinuoso, una lavoratrice si rivolge a me chiedendomi: “Mana wana” (come va?). Le rispondo: “Lafi, za karamba” (tutto bene, e la famiglia?). “Lafi, lafi, lafi”, risponde lei, tenendo la sua mano nella mia, che viene scossa a ogni parola pronunciata in moré, la lingua parlata dai mossi, l’etnia maggioritaria del paese.
Fiduciosa, estraggo la mia macchina fotografica, faccio due o tre scatti di questa anziana, con il suo permesso, prima di essere avvicinata da un’altra donna che mi stringe la mano, poi con l’altra si tocca la bocca più volte, facendomi segno che vuole mangiare, che le devo dare da mangiare in cambio della foto. Altre donne fanno lo stesso.
Lo sfruttamento della cava di granito è artigianale. In un simile ambiente la macchina fotografica è assimilata a una forma di ricchezza e a un’intrusione straniera. Fin dai miei primi scatti, un gruppo di lavoratori s’è mostrato ostile. La loro diffidenza si è diffusa come una tempesta di sabbia sugli altri lavoratori.
Mamoudou, il proprietario del chiosco, è sempre al mio fianco. Mi spiega che qui “i bianchi quando vengono, quando venivano, portavano aiuti, dei vestiti, delle medicine. Davano qualcosa e poi se ne andavano”. E c’è anche stato un gruppo di turisti venuti in autobus una volta. “Hanno scattato alcune foto e hanno continuato il loro viaggio a Bobo Dioulasso”, ricorda. Secondo loro, i bianchi li trattano come oggetti di curiosità, e questa cava non è altro che un’attrazione turistica.
Metto via la macchina fotografica e decido di trovare un terreno d’intesa. In Burkina Faso è importante saper conversare, le chiacchiere sono una vera e propria istituzione.
Un sostituto della scuola
Il primo giorno non scatto foto ma tengo la macchina al collo. Torno alla cava l’indomani. Saluto alcune donne e mi siedo al loro fianco. Qui si comincia dicendo il cognome: prima di essere individui si è innanzitutto discendenti di una stirpe. Discutiamo del significato dei nomi. Il mio, d’origine araba, significa “fabbro”. Un mestiere al contempo rispettato e temuto, anche se i fabbri sono sempre più rari. Ma ai loro discendenti sono ancora attribuiti poteri mistici. In moré il mio nome significa “piccolo capo”. Alcuni momenti di titubanza, poi risate: sono convinte che abbia degli antenati burkinabé.
Prendo un martello, colpisco una pietra. Cerco di portare dei sassi sulla testa. “È dura”, mi dice una di loro.
Vorrebbe fotografarmi. Le spiego come usare la macchina fotografica. Guarda la foto e sorride. Altre donne fanno lo stesso e s’impadroniscono della macchina che diventa un oggetto un po’ meno estraneo. Così nascono i miei primi scatti, durante i momenti di silenzio, tra le chiacchiere, cui spesso assistono un bambino o un adolescente. La maggior parte di loro ha imparato il francese a scuola.
Come Amy che, a soli 15 anni, conosce la cava come il palmo della sua mano. Sa come funziona e ha già qualche nozione di contabilità.
Ogni giorno saranno circa un migliaio le persone che penetrano in questo enorme cratere scavato durante gli ultimi vent’anni. Trasportano sulla testa un vassoio carico di pezzi di granito che rivenderanno a trecento franchi Cfa al pezzo (cinquanta centesimi d’euro). Ciascuno lavora per conto proprio e guadagna tra uno e due euro al giorno. Alla fine questo granito servirà a costruire degli edifici, delle case, delle strade.
Qui decine di bambini e adolescenti come Amy spaccano sassi dall’alba al tramonto, durante i fine settimana e le vacanze scolastiche. Altri, che non vanno a scuola, lavorano nella cava tutto l’anno. Amy mi spiega che il lavoro nella cava si svolge in famiglia, ciascuna delle quali può sfruttarne una piccola porzione. I figli aiutano i genitori per aumentare le entrate, pagarsi le spese per i bisogni più elementari e partecipare all’acquisto dei materiali scolastici.
Queste foto di bambini non rivelano solo la povertà, ma anche che la cava è un luogo dove imparano a essere autonomi, un sostituto della scuola in un paese dove sono troppo pochi i bambini che possono frequentarne una. Assisto a una scena rivelatrice dell’immersione dei bambini, loro malgrado, nel mondo del lavoro. Due di loro riempiono delle tazze con dei sassolini di granito. Hanno sette anni. Seduti in mezzo alla cava, la loro pelle e i loro vestiti sono ricoperti di una sottile pellicola bianca, probabilmente un misto di polvere rossa e del diossido di zolfo sprigionato dagli pneumatici bruciati. I loro gesti sono gli stessi di quelli degli adulti che riempiono i loro vassoi di granito per poi risalire i pendii sinuosi e scivolosi.
All’inizio penso che stiano giocando e imitando i gesti degli adulti, come fanno i bambini di tutto il mondo. Dieci minuti dopo uno dei bambini si alza e si mette a sedere davanti a una pila di granito. Prende un martello e sbriciola la pietra tra le sue mani fragili e ferite. Sembrano più vecchie. Il gioco era solo una pausa dal suo lavoro, anche se compiva le stesse azioni.
Da allora ho preso l’abitudine, una o due volte la settimana, di andare a trovare queste persone. A volte solo per salutarle. A volte, quando mi assento per troppo tempo, ricevo una chiamata da Josephine o da sua figlia Nadège: “Son due giorni che non passi. Ci hai abbandonati?”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Making-of dell’Agence France-Presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
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