Il viaggio attraverso il Mediterraneo e l’Europa è tetro e doloroso per la maggior parte dei profughi – ma per il musicista siriano Anas Maghrebi, 26 anni, è stato divertente. “È una cosa strana da dire, ma lo è stato davvero”.

La Siria devastata dalla guerra era diventata un “vicolo cieco” per i musicisti, racconta Maghreb. Dopo le proteste contro il presidente Bashar Assad cominciate nel 2011, il paese è precipitato nella guerra civile. Quando Rabea, il batterista della sua band originaria, è stato ucciso nel 2012, ha capito che non c’era più speranza per la libertà artistica. “Il nostro amico era un attivista pacifico; tutti noi a un certo punto abbiamo partecipato alle proteste, ma lui era il più serio di tutti. Lui dava una mano, non si limitava a partecipare”, racconta Maghreb. “È stato un momento buio per noi, perché il sogno stava svanendo”.

Nel 2013 Maghrebi ha lasciato Damasco per andare in Libano, dove ha incontrato gli altri musicisti con cui ha formato i Khebez Dawle, ma in quanto profughi non potevano guadagnarsi da vivere lì. Lo scorso agosto i quattro membri della band – Maghrebi, Muhammad Bazz, Hikmat Qassar e Bashar Darwish – hanno capito di dover compiere un altro sforzo. Hanno venduto i loro strumenti per pagare i trafficanti, 1.200 dollari ciascuno, e si sono imbarcati su un gommone per attraversare il Mediterraneo.

Quando sono approdati a Lesbo, hanno distribuito copie del loro disco ai turisti sulla spiaggia

“Ci hanno detto che siamo stati piuttosto fortunati ad aver trovato quel gommone con solo 16 persone a bordo. Era divertente però, divertente in modo complicato”.

Quando sono approdati a Lesbo, hanno distribuito copie del loro disco ai turisti sulla spiaggia. “Di solito vedevano arrivare barche piene di persone con sguardi spaventati e volti tristi. Quella volta invece hanno visto visi felici, sorridenti, ragazzi che parlavano inglese. Ci siamo presentati come una band. Erano tutti sconvolti”.

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Una settimana dopo, mentre si trovavano in un centro profughi in Croazia, i Khebez Dawle hanno ricevuto la richiesta di esibirsi in un concerto a favore dei migranti organizzato da alcuni attivisti. Poi la band ha suonato in un locale di Zagabria che aveva ospitato anche gruppi del calibro dei Mogwai. Si sono fatti prestare gli strumenti, hanno suonato davanti a un pubblico da tutto esaurito e da allora hanno ricevuto inviti per concerti e festival in tutt’Europa. “Per noi era piuttosto surreale indossare ancora i vestiti che avevamo durante il viaggio. Tutta questa storia non era stata pianificata, è questo il bello”.

Anche se riusciti a far prendere una piega diversa al viaggio, sotto altri punti di vista la loro non è una storia molto diversa da quelle strazianti che parlano di lunghe attese, di maltrattamenti ai confini e di perdita dell’identità. Maghrebi ricorda una notte di marcia, coperti di fango, per arrivare in Croazia. La polizia croata li ha fermati al confine e trattenuti per più di 24 ore. “Abbiamo cercato di essere amichevoli, di fargli vedere che non eravamo dei mostri, né dei criminali, solo persone normali”, racconta Maghrebi.

Uno dei poliziotti era un batterista. Maghrebi ricorda: “Ha tirato fuori il telefonino e ha iniziato ad ascoltare una delle nostre canzoni su YouTube. Ironia della sorte, la canzone parla di libertà, prigione e prigionieri. Potevamo leggergli negli occhi la domanda ‘cosa ci fate qui?’. Ma la gente non sa cosa sta accadendo in Siria. Non sanno che noi non avevamo altra scelta”.

Attraverso la loro musica, i Khebez Dawle vogliono condividere le storie di migranti che cercano disperatamente un rifugio

La situazione politica e sociale in Siria attraversa tutta la musica dei Khebez Dawle. Il nome della band significa “pane del governo”, un modo di dire siriano che indica dipendenza dallo stato e bella vita. Ma oggi ha un significato diverso. “Quello che è successo in Siria ha fatto capire a tutti noi che il vero ‘pane’ del paese, o la vera base su cui costruire un paese stabile e libero, è il popolo. La musica dei Khebez Dawle parla del popolo”, dice Maghrebi.

“Affrontare un viaggio del genere fa aumentare la tua fiducia negli esseri umani. Le persone che abbiamo conosciuto in questo viaggio sono solo esseri umani meravigliosi, dal cuore gentile e autentici; non ricordo i loro passaporti. Questo è un grande insegnamento”.

La responsabilità di parlare

I Khebez Dawle si descrivono come una band indie rock orientale – un misto di musica tradizionale siriana e rock occidentale, influenzati da Pink Floyd e Radiohead, con testi in arabo. Il primo album, che porta il nome del gruppo, è uscito ad agosto.

Finanziato dall’Arab fund for art and culture e dall’Arab culture resource, segue la storia di un giovane siriano che assiste alla primavera araba e alle rivolte in Siria. L’album esplora queste vicende senza pregiudizi politici. “In quel momento era tutto un caos e non c’era alcun motivo per spingere la gente da questa parte o da quell’altra”, ricorda Maghrebi. Il prossimo album, ancora in lavorazione, racconta una storia diversa. Parla delle battaglie personali dei profughi: una riflessione fatta da giovani siriani che vivono lontano da casa e devono affrontare un paese straniero, posti nuovi e gente nuova.

Attraverso la loro musica, i Khebez Dawle vogliono condividere le storie di migranti che cercano disperatamente un rifugio, con la speranza di abbattere le barriere tra l’Europa e il popolo siriano. I membri della band, che oggi sono richiedenti asilo a Berlino, hanno usato il crowdfunding per comprare l’attrezzatura e stanno pensando a un tour europeo per il prossimo anno. Sperano di fare un paio di date a Londra la prossima estate.

“Con la band abbiamo la responsabilità di parlare, di raccontare agli europei degli altri siriani che non sono ascoltati”, dice Maghrebi. “Per me questo conta molto di più che suonare nei locali, ballare e altri cose di questo tipo, è molto più di questo. Si tratta di assumersi la responsabilità di fare da passaparola. Dobbiamo suonare davanti a persone di culture diverse, di paesi diverse, e dobbiamo assicurarci che la la lingua non sia più una barriera”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.

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