All’epoca aveva ancora un ruolo secondario. La sera dell’investitura di Joe Biden, il 20 gennaio 2021, Kamala Harris ha pronunciato un breve discorso, sorridendo alla platea. Le sue frasi hanno celebrato lo spirito propositivo e l’immaginario statunitense. “Non ci limitiamo a sognare, ma agiamo. Non guardiamo solo a ciò che è stato, ma anche a ciò che può essere. Puntiamo alla Luna e ci piantiamo la nostra bandiera”. Tuttavia, lo scorso 5 novembre l’allunaggio elettorale di Kamala Harris si è concluso con una catastrofe politica.
Harris ambiva a diventare la prima donna alla presidenza degli Stati Uniti, vendicando la sconfitta di Hillary Clinton del 2016. La vicepresidente ha invece sbattuto contro l’ultimo soffitto di cristallo, segnando un nuovo passo falso nel progresso difficile ma costante delle donne verso le cariche di maggiore responsabilità, in un paese in grado di rinnovarsi sempre ma che oggi è profondamente spaccato. Simbolo potente della diversità, figlia del giamaicano Donald Harris e dell’indiana Shyamala Gopalan, Kamala incarna gli Stati Uniti del ventunesimo secolo. Ma questo secolo è anche quello dei movimenti populisti di destra dai risvolti autoritari, che hanno lanciato un assalto contro lo stato di diritto e le istituzioni, intercettando il risentimento popolare e approfittando di un ecosistema mediatico in cui ognuno sta dentro la propria bolla.
Contrariamente a ciò che pensavano i suoi sostenitori più convinti, Harris non ha saputo creare una mobilitazione massiccia a suo favore, un movimento paragonabile a quello per Barack Obama. Una parte consistente dei voti per Harris è dovuta all’ostilità nei confronti di Trump, la stessa che aveva premiato Biden nel 2020. Il ritiro di Biden a luglio ha provocato un immenso sollievo tra i democratici che vedevano all’orizzonte una sconfitta inevitabile. Harris, sessant’anni, avrebbe potuto quanto meno dare battaglia. Ma la decisione di Biden è stata presa troppo tardi per adottare una strategia coraggiosa.
Durante la campagna elettorale Harris non ha mai fatto riferimento al suo lavoro come vicepresidente, citando invece spesso la sua esperienza di procuratrice distrettuale di San Francisco (eletta nel 2003) e poi di procuratrice generale della California (a partire dal 2010). La storia di una donna di legge impegnata a combattere i gruppi criminali, il traffico di droga e le grandi multinazionali è stata idealizzata come in un fumetto Marvel, trasformandola in una sorta di Capitan America. Questa narrativa sembrava ideale per sconfiggere Donald Trump, condannato in sede penale, riconosciuto responsabile di una molestia sessuale in sede civile e incapace di nascondere il suo apprezzamento per il leader cinese Xi Jinping o il suo omologo russo Vladimir Putin. Il bene contro il male, l’eterna drammaturgia della politica statunitense. I democratici pensavano che sarebbe bastato.
Eppure, fino all’ultimo, Harris ha faticato a creare un legame con gli elettori. Quando si rinuncia alla spontaneità il rischio è di apparire troppo calcolatori. “Ho vissuto una vita piena”, ha dichiarato la vicepresidente a Detroit il 21 ottobre. “Sono una moglie, una sorella, una madre adottiva. Amo cucinare”. Difficile riassumere meglio la sua difficoltà nel raccontarsi al di là di un elenco.
Harris non è un prodigio della politica, ma è una studente diligente. Ha imparato dalle delusioni, per esempio dalla sua esperienza mediocre alle primarie democratiche del 2019. Conosce il valore della lealtà e della disciplina. Durante i primi due anni di vicepresidenza in pubblico ha sempre nascosto il suo stato d’animo. Come poteva trovare il suo posto accanto a Biden, lui stesso costretto a ricoprire il ruolo ingrato di vicepresidente per otto anni all’ombra di Obama? Sempre rispettoso e incoraggiante nei suoi confronti, il presidente non le ha però lasciato molto margine di manovra. Quando Harris ha provato a cimentarsi con il tema dell’immigrazione, ha scoperto che non poteva fare nulla a causa dell’impasse al congresso. Ma quell’esperienza le è valsa il soprannome di “zarina della frontiera”, affibbiatole dai sostenitori di Trump.
Harris si sentiva da tempo prigioniera di un ruolo puramente cerimoniale. Allo stesso tempo ha dovuto continuamente fare la spola con il senato – diviso fino a quel momento al 50 per cento tra democratici e repubblicani – dove il suo voto come presidente è stato determinante in tutte le votazioni più importanti. A dicembre del 2023 ha battuto un record vecchio di duecento anni, diventando la vicepresidente più decisiva con i suoi voti nella storia del senato. Ma nessuno, tra il grande pubblico, ha notato questa performance puramente simbolica. I frequenti cambiamenti nella sua squadra hanno tradito un certo malessere.
In qualche modo l’ascesa di Harris è dovuta a Donald Trump. Nominando tre giudici conservatori alla corte suprema, infatti, il miliardario ha aperto la porta a una decisione storica arrivata a giugno del 2022: la fine del diritto all’aborto per tutte le donne a livello federale, con il rinvio delle decisioni ai singoli stati. Ricevendo l’incarico di occuparsi dei diritti riproduttivi, l’ex procuratrice ha trovato una causa.
Prima delle elezioni di metà mandato del novembre 2022 e durante l’anno successivo, Harris ha completato un lungo tour degli Stati Uniti per incontrare le ragazze e i ragazzi nelle università: otto stati e 15mila studenti secondo il bilancio della Casa Bianca. I mezzi d’informazione l’hanno seguita poco, ma la vicepresidente si è fatta le ossa.
Intervenendo nel settembre 2023 all’università di Hampton, in Virginia, Harris diceva: “Penso che sia in corso un attacco intenzionale e totale contro diritti e libertà conquistati con fatica. Parlo della libertà di prendere decisioni sul proprio corpo e sul proprio futuro, della libertà di votare, della libertà di essere e di amare chi si ama, della libertà di non subire la violenza delle armi e la paura che ispirano”. Questo approccio ha costituito il canovaccio della sua campagna elettorale, partita dieci mesi più tardi.
Eppure la popolarità di Harris è rimasta inesorabilmente legata a quella di Joe Biden, attorno al 40 per cento. La sorte dei due sembrava legata, anche perché la vicepresidente non mostrava particolare audacia retorica, preferendo perdersi in frasi senza fine ed esponendosi allo scherno degli avversari invece di mostrarsi inflessibile. Questa prudenza, come d’altronde il modo di argomentare le sue posizioni in politica estera, ha dato spesso l’impressione di una mancanza di autonomia.
Laddove Biden, forte di un’esperienza cinquantennale nella diplomazia, godeva di una naturale autorità, Harris cercava il modo di dimostrare il suo valore. Come se una donna dovesse fare di più di un uomo per farsi apprezzare. Durante la campagna elettorale c’era qualcosa di curioso nel modo in cui Harris si vantava di aver incontrato “più di 150 leader stranieri” da quando era diventata vicepresidente, come chi si pavoneggia dei pesi che riesce a sollevare.
Harris si è lanciata nell’operazione più delicata della politica statunitense moderna e ha dovuto dimostrare una capacità di adattamento fenomenale, entrando in corsa tardi, mettendo a punto una strategia e un programma tra un volo e l’altro, e raccogliendo la sfida di un dibattito televisivo contro una vecchia volpe come Donald Trump. Il fallimento di Hillary Clinton del 2016 è stata una lezione per Harris: l’importante era rifuggire da ogni arroganza e non esprime alcun disprezzo per un’America divisa e devota al culto del miliardario.
La candidata si è tenuta alla larga dalla questione identitaria e non ha mai fatto valere le sue origini miste, come se l’evidenza del colore della sua pelle parlasse per sé. Da un punto di vista politico ha cancellato ogni riferimento alla guerra culturale, a quell’ideologia woke che agita la destra nazionalista cristiana. Harris ha capito che dal 2020 le dinamiche erano cambiate, non solo a causa delle decisioni della corte suprema. C’era la possibilità, anche se effimera, che molti elettori conservatori e moderati potessero compiere un passaggio storico verso i democratici, perché Donald Trump era un candidato più estremista e pericoloso di quanto desiderassero.
Kamala Harris ha continuato a mettere in scena la propria apertura politica promettendo “un posto a tavola” a chi non la pensava come lei. Alla fine non è bastato. La tavola in questione si trova nell’ufficio ovale, ed è la scrivania Resolute, di rovere massiccio. A occupare la sedia davanti alla scrivania, a partire da gennaio prossimo, sarà Donald Trump.
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