Nel secolo dei droni e delle guerre non convenzionali, mentre Hamas ha migliorato la sua capacità offensiva a lungo raggio e i “lupi solitari” operano localmente, il “muro” eretto per isolare gli israeliani dai palestinesi della Cisgiordania serve ancora a qualcosa?
La questione è tanto più attuale in quanto due dei quattro attacchi commessi tra il 22 marzo e il 7 aprile (a Beersheba, Hadera, Bnei Brak e Tel Aviv) sono stati condotti da palestinesi originari di Jenin. Questa città nel nord della Cisgiordania, a qualche chilometro dalla linea verde, ha a lungo simboleggiato la permeabilità di una “barriera di sicurezza” che ha complicato, senza mai impedirli, i movimenti di migliaia di palestinesi che ogni giorno continuano ad andare a Umm al Fahm, Haifa o Nazareth per lavorare o fare visita ai parenti.
Da quando nel giugno del 2002 la knesset, il parlamento israeliano, votò il progetto di costruzione di una grande muraglia moderna che separasse la Cisgiordania dall’interno, l’obiettivo ufficiale è garantire la sicurezza fisica degli israeliani che vivono a ovest della recinzione. Vent’anni dopo, la barriera non è mai apparsa tanto porosa, senza che questo spinga l’opinione pubblica a interrogarsi sull’efficacia di quella che era stata venduta come una garanzia contro le “infiltrazioni nemiche”. Anche se la frequenza si è ridotta, gli attentati non sono mai scomparsi. Gli israeliani, che pensavano di aver respinto la “minaccia” lontano dagli occhi, sono periodicamente raggiunti nel cuore di quello che sognavano essere un santuario: l’attacco del 2004 ad Ashdod, la sparatoria di Gerusalemme nel 2008, l’ondata di attentati nel 2015 e 2016, o quella del 2022.
Tenuto conto dell’ossessione per l’idea della “sicurezza nazionale”, del suo costo economico (2,7 milioni di dollari per chilometro, per più di settecento chilometri), e delle conseguenze politiche della costruzione, giudicata illegale dalla Corte di giustizia internazionale dal 2004, il “muro” avrebbe potuto provocare una polemica interna, come è successo all’inizio degli anni duemila. Ma poi l’argomento è a poco a poco scomparso dal dibattito pubblico. In pochi oggi si soffermano su quest’istallazione ibrida, fatta di filo spinato, muri di cemento, posti di blocco, fossati e torri di controllo, che si è come incastonata nel paesaggio. Perfino la potente lobby dei coloni israeliani, ostile al progetto nella misura in cui rinuncia almeno simbolicamente a una parte delle terre rivendicate, se n’è fatta una ragione.
Questo bastione israeliano non è un caso isolato, ma è il sintomo dell’epoca e della società nella quale è stato concepito. “La globalizzazione e l’emergere di minacce internazionali hanno avuto l’effetto paradossale di portare a un prepotente ritorno delle nozioni di sovranità e del superamento delle istituzioni sovranazionali”, osserva Said Sadiki, professore di relazioni internazionali all’università Sidi Mohamed ben Abdellah a Fes, in Marocco.
In Cisgiordania le strutture fisiche per tenere sotto controllo gli spostamenti e i movimenti della popolazione appaiono negli anni novanta
Nella seconda metà del novecento alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti, in India, nel Sahara Occidentale o a Cipro, sono state erette decine di barriere per regolare i flussi migratori, creare una zona tampone o allontanare una minaccia esterna. “Con una differenza: queste barriere sono state costruite sul territorio nazionale o nel peggiore dei casi su un’area contestata, mentre il muro israeliano è stato costruito in un territorio occupato”, afferma lo studioso. Questa caratteristica ha motivato la decisione della Corte internazionale di giustizia che, nel luglio del 2004, in un parere consultivo stabilì che “la costruzione del muro e il regime a esso associato sono contrari al diritto internazionale”.
Nonostante queste condanne, il muro è ancora considerato un male necessario in Israele. Inoltre la sua funzione si accetta con facilità perché la storia collettiva è piena di riferimenti all’idea di una barriera protettiva. È la “sindrome della cittadella assediata”, detta anche complesso di Massada: una cittadella costruita nel primo secolo avanti Cristo dal re Erode su una scarpata rocciosa affacciata sul mar Morto che servì come base agli ebrei per combattere l’assedio romano.
Dalla creazione dello stato ebraico nel 1948 l’espressione evoca la percezione di una minaccia esistenziale permanente che giustifica il dispiegamento della forza a ogni costo. Attraverso la nozione di eruv (recinzione cittadina che dovrebbe delimitare lo spazio di vita di una comunità religiosa nell’ebraismo) o attraverso l’organizzazione interna dei kibbutzim (collettività rurali che vivono in cerchie ristrette), la delimitazione dello spazio di vita a fronte di un esterno vissuto come ostile, pericoloso o semplicemente estraneo è un motivo ricorrente della cultura ebraica e poi israeliana.
Incoerenza ideologica
Anche quando il paradigma dominante è quello di una “integrazione” economica dei territori occupati nello spazio israeliano, l’idea della “separazione” non è mai assente. In Cisgiordania le strutture fisiche per tenere sotto controllo gli spostamenti e i movimenti della popolazione appaiono negli anni novanta. Sulla scia della prima intifada (dicembre 1987) “i palestinesi diventano un problema di sicurezza intensificato agli occhi degli israeliani: si avviano allora delle riflessioni per elaborare dei meccanismi più spinti di controllo della mobilità degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza verso le zone israeliane”, osserva Damien Simonneau, professore all’Istituto nazionale di lingue e civiltà orientali a Parigi e autore di L’obsession du mur (Peter Lang 2020). L’insieme dei dispositivi di sicurezza si rafforza: posti di blocco, ostacoli, punti di controllo.
Il paradigma che si stabilisce a Oslo nel 1993 e nel 1995, quello di “due popoli per due stati”, accompagna questi cambiamenti. “L’idea di separare, dal punto di vista della sicurezza, e la possibilità di creare un’entità politica palestinese vanno di pari passo”, continua Simonneau. Poiché una parte dell’economia israeliana si basava su una manodopera palestinese a basso costo, le autorità si sono rivolte sempre più a lavoratori migranti provenienti da lontano, a volte dall’Asia, per ridurre l’effetto della dipendenza. Nonostante tutto, non c’era la volontà politica per spingere fino in fondo il progetto di separazione. L’emergere della consapevolezza di una “minaccia demografica” ha cambiato la situazione.
Due precedenti considerati di successo, il muro a Gaza e quello alla frontiera nord con il Libano, sanciscono l’efficacia del progetto
Dalla fine degli anni settanta la necessità di un “disimpegno” si fa strada negli ambienti intellettuali e poi nel grande pubblico. Le conquiste del 1967 (Striscia di Gaza, Cisgiordania, alture del Golan, Sinai) avevano sollevato delle nuove domande: cosa fare dei territori e delle popolazioni occupate? Arnon Soffer, geografo e militare, è uno dei teorici che hanno influenzato il dibattito. Soffer afferma che la politica di cancellazione della linea verde a lungo andare compromette l’esistenza dello stato ebraico e auspica il disimpegno dai territori a maggioranza palestinese.
Considerato il “padre del disimpegno”, Soffer svolge un lavoro di sensibilizzazione per mettere in guardia sui pericoli di un’occupazione continua dei territori conquistati. Prende piede una vasta lobby a favore del muro. Due precedenti considerati di successo, il muro a Gaza e quello alla frontiera nord con il Libano, sanciscono l’efficacia del progetto. Alcune personalità politiche si schierano a favore: tra queste c’è Ariel Sharon, che Soffer dice di aver incontrato a più riprese, e che sarà il promotore del ritiro israeliano da Gaza nel 2005 e dello sgombero forzato di oltre settemila coloni ebrei, pur avendo incarnato la politica di colonizzazione.
Ma restano alcune reticenze soprattutto da parte dell’esercito, dei coloni e della destra. Nell’agosto 2003 Moshe Yaalon, capo di stato maggiore, dichiara che “la barriera non risolverà tutti i problemi. Se dessero a me i soldi, li investirei altrove”. Bisogna aspettare la seconda intifada, a partire dal settembre del
2000, e poi l’ondata di attentati che scuote il paese, perché sia presa una decisione per rendere sistematica questa politica di disimpegno.
Il mese di marzo del 2002 è particolarmente sanguinoso, con l’attentato al Park hotel di Netanya che provoca trenta vittime e segna una rottura. Lo stesso Sharon, all’epoca primo ministro ed ex rappresentante dei coloni, si schiera dalla parte dell’opinione pubblica in favore di questa misura “di buon senso”. Il 14 aprile, dopo uno dei mesi più violenti della storia del paese, il primo ministro annuncia la costruzione di una barriera di separazione.
Ma l’argomento della sicurezza, così come la tesi demografica, non bastano a spiegare la costruzione del muro. Per tre motivi: l’opera non è mai stata completata, di conseguenza alcuni settori significativi della “frontiera” tra la Cisgiordania e il territorio israeliano continuano a essere vuoti o contrassegnati da un reticolato metallico. La motivazione della sicurezza non può spiegare neanche il tracciato della barriera, che invade il 10 per cento delle terre palestinesi, contribuendo ad allungare da due a cinque volte il tragitto dei palestinesi. Soprattutto, il persistere delle politiche di colonizzazione a est del muro da parte dei governi israeliani successivi, di sinistra e di destra, sottolinea l’incoerenza ideologica di questa strategia.
A partire dagli anni novanta e duemila si afferma una sorta di schizofrenia. Da un lato il governo porta avanti una politica di disimpegno lavorando al livello internazionale per una pace a due stati; dall’altro si continua a sostenere le rivendicazioni massimaliste sull’”integralità della terra d’Israele” (Eretz Israel ha-shlema) e a sponsorizzare ai massimi livelli l’insediamento di migliaia di coloni su territori che dovrebbero costituire il futuro stato palestinese.
Questa tensione non si è mai risolta, e l’evoluzione parallela delle due tendenze ha favorito l’affermarsi di uno status quo. “A poco a poco, ci si è resi conto che il muro serviva a Israele per far avanzare le sue pedine”, osserva Simonneau. Vent’anni dopo, il muro non è riuscito a separare. Ma ha consolidato quello che era stato acquisito con la forza delle armi.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è uscito sul quotidiano libanese L’Orient-Le Jour.
Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in Medio Oriente. Esce ogni mercoledì e ci s’iscrive qui.
Leggi anche:
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it