Chiuse le urne c’è sempre qualcuno che dice di aver già vinto, anche se i numeri sono ancora incerti. Questa volta, tra voto regionale e referendum, lo hanno fatto con qualche ragione il Partito democratico e il Movimento 5 stelle. E, legittimamente, anche i governatori appena eletti: tre per il centrodestra e tre per il centrosinistra. E poi c’è stato chi, come Matteo Salvini, non ha proprio potuto fare lo stesso. È lui, più di altri, lo sconfitto in questa tornata elettorale. Lo è ancora una volta politicamente, prima ancora che nei numeri.
Per consolidare la propria leadership nel centrodestra, Salvini aveva infatti immaginato di replicare in Toscana l’operazione già tentata, e fallita, qualche mese fa in Emilia-Romagna, provando nuovamente a espugnare una delle storiche roccaforti rosse. Rispetto ad allora, in questa occasione aveva anche ammorbidito i toni e cambiato strategia per intercettare il voto moderato. Ma non è servito. Nonostante il suo impegno in prima persona, la candidata del centrodestra, la leghista Susanna Ceccardi, ha perso contro Eugenio Giani, candidato di un cartello di liste guidato dal Partito democratico.
D’altra parte, anche la riconferma quasi plebiscitaria di Luca Zaia alla guida del Veneto provoca qualche preoccupazione nel leader leghista. Da tempo, infatti, si attendeva di misurare il rapporto tra la Lega e la lista intestata al governatore, per valutare la salute della leadership salviniana e l’eventuale contendibilità del partito. Ebbene, il risultato personale di Zaia è andato oltre ogni previsione, avendo ottenuto da solo il triplo dei voti racimolati in Veneto dalla Lega.
Salvini in difficoltà
L’impresa di Zaia, dunque, mette in difficoltà Salvini perché segnala una debolezza nella presa che l’attuale segretario ha sul corpo della Lega. Ma le difficoltà si manifestano anche su un piano schiettamente politico e finiscono per intaccare le fondamenta stesse del progetto di partito a orizzonte nazionale che ha in testa Salvini. Mentre infatti la Lega fatica molto ad affermarsi nel meridione, e i risultati di ieri lo confermano, in Veneto trionfa quella parte di partito più ancorata al territorio e ai valori delle origini. Non a caso, “autonomia” è stata tra le prime parole uscite dalla bocca del riconfermato Zaia.
Poi, certo, lo stesso Zaia ha anche escluso ogni suo possibile cedimento alla tentazione nazionale, affermando di voler rispettare l’impegno preso con i propri elettori. Tuttavia, se si pensa anche a come alcuni dirigenti di primo piano del partito si erano smarcati dalla posizione presa dalla Lega sul referendum – il caso più eclatante è stato il no annunciato da Giancarlo Giorgetti alla vigilia del voto – si ha ormai la sensazione di un partito non più politicamente compatto attorno al segretario, con una leadership diventata contendibile.
Infine, in discussione appare ormai anche la guida dell’intera coalizione. Anche Giorgia Meloni ieri ha dovuto incassare una sconfitta, quella del “suo” Raffaele Fitto contro Michele Emiliano in Puglia. La leader di Fratelli d’Italia (FdI) ha però potuto festeggiare la conquista delle Marche, regione rossa strappata alla sinistra dopo decenni da una coalizione guidata dal deputato Francesco Acquaroli, anche lui di FdI. Date le circostanze, anche il sostanziale pareggio nella sfida a distanza con Giorgia Meloni appare come una mezza sconfitta per Salvini.
La partita per la leadership a destra, insomma, sembra ormai aperta. E Salvini è evidentemente in affanno sia per le sconfitte e gli errori commessi dal Papeete in poi, sia perché impegnato con inchieste giudiziarie che riguardano lui e la Lega. Il paradosso è che il centrodestra resta ancora forte nel paese ma rischia di rimanere senza una guida chiara e, nell’incertezza, perfino senza una vera linea politica.
Vittorie a metà
Sull’altro fronte invece si canta vittoria: l’M5s per il risultato del referendum, il Pd per l’esito politico della consultazione. In realtà, nel complesso si tratta per entrambi di vittorie soltanto a metà.
Quella del sì al referendum è una vittoria dei cinquestelle, ed è una vittoria ottenuta testardamente e su una questione identitaria. Tuttavia, il responso delle urne è stato disastroso per quanto riguarda il voto politico, tanto da oscurare in parte la stessa vittoria referendaria. L’origine di questo mezzo fallimento sta nelle divisioni che da tempo lacerano il partito. Non a caso, tra le prime parole pronunciate dall’ex capo politico Luigi Di Maio c’è la scomunica della strategia seguita dall’attuale dirigenza del partito nel preparare la sfida per le regionali. Lo stesso aveva fatto anche alla vigilia del voto. E pare l’annuncio di una prossima resa dei conti.
In casa Pd, invece, per come si erano messe le cose, Nicola Zingaretti può legittimamente dichiararsi soddisfatto. Pochi nei giorni scorsi avrebbero scommesso su un pareggio con il centrodestra, con la tenuta di Puglia e Toscana. E i numeri usciti dalle urne sembrerebbero confortare il segretario anche sotto il profilo del risultato del partito – anche se, come sempre, è opportuno aspettare il conteggio definitivo per trarre conclusioni attendibili. Tuttavia, dopo aver perso l’Umbria nel 2019, il centrosinistra adesso perde anche le Marche, mentre perfino la Toscana, per ammissione della stessa dirigenza del Pd, è diventata contendibile. È evidente allora che chi adesso parla di vittoria può farlo solo perché il partito di Zingaretti e anche il suo leader alla vigilia erano dati per spacciati.
Va riconosciuto però che, dove ha vinto, il Pd ha vinto da solo. Ha vinto contro il centrodestra, certo, ma anche contro l’M5s perché quasi ovunque i cinquestelle avevano presentato propri candidati, accrescendo lo sconcerto anche di una parte del loro elettorato. E ciò aggiunge peso politico al risultato dei democratici, aumentando il loro potere contrattuale nell’alleanza di governo.
Ora per Zingaretti si tratta di passare all’incasso. Sul tavolo ci sono il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e i decreti sicurezza. Più in generale, ci sono le riforme che, a partire dalla nuova legge elettorale, sono necessarie dopo l’esito del referendum. In un secondo momento, si aprirà probabilmente una riflessione sul riassetto degli equilibri nella maggioranza. E a proposito di maggioranza, ci sarebbero anche Matteo Renzi e Italia viva, che però non sono apparsi determinanti neanche in Toscana.
Tuttavia, è difficile dire ora se l’esito del voto avrà riflessi sul governo e se la composizione dell’esecutivo dovrà essere allineata con il nuovo rapporto di forze tra Pd e M5s, magari con nuovi ministri di peso. Si vedrà. In ogni caso, è opinione comune che si stia aprendo una fase di maggior stabilità per Giuseppe Conte. La crisi delle forze populiste – Lega e M5s – e il premio arrivato con il voto a chi – governatori e forze politiche – ha tenuto un atteggiamento di maggior concretezza e responsabilità in questi mesi di grave crisi sanitaria ed economica, sembrano per ora indicazioni sufficienti.
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