Le dimensioni della recente offensiva israeliana nella Striscia di Gaza non sono state capite in occidente, e sicuramente non in Israele. Ma presto saranno resi pubblici i dati sugli aspetti quantitativi del conflitto: numero di morti e di feriti, case completamente e parzialmente distrutte (rispettivamente quattromila e diciassettemila), soldi necessari per rimuovere le macerie (600 milioni di dollari), danni all’agricoltura e all’industria.

Tutti i giornalisti presenti a Gaza dicono che ai loro direttori non interessa più la Striscia. Ora è il momento delle cose che contano: negoziati, dichiarazioni, guerra al terrorismo, contrabbando di armi, il diritto di Israele di difendersi. Ma sono le cifre a emergere dalle macerie e dai racconti dell’orrore. Io non ho ancora trovato il modo di spiegarle a me stessa, figuriamoci agli altri.

Sono tornata a Gaza il 22 gennaio. Ironia della sorte, l’offensiva israeliana ha permesso due cose prima impossibili: l’apertura del valico di Rafah da parte degli egiziani e il mio ritorno a Gaza, dopo che Hamas mi aveva allontanata a dicembre.

L’apertura mi ha permesso di aggirare il divieto israeliano. Sono rimasta tre giorni a Rafah, che è stata meno colpita: “solo” 50 morti, 60 edifici colpiti direttamente da bombe e missili, 300 case distrutte. “Solo” tre i casi di famiglie che hanno perso più di due componenti. Ho incontrato due di queste famiglie e ho visto un centinaio di case distrutte.

Molte di queste si trovano in un’area agricola: gli abitanti mi hanno raccomandato, in ebraico, di portare un messaggio ai loro ex datori di lavoro israeliani: “Tutto quello che ci permetteva di vivere è finito sotto i vostri carri armati”.

L’enormità di quanto è successo si coglie sul volto delle persone. Sembrano tutti invecchiati. Più stanchi. Ma hanno anche una strana espressione di sollievo, forse perché sono ancora vivi. E poi c’è lo stupore. Stupore per le dimensioni dell’offensiva: io sto ancora cercando le parole.

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