Dopo sette ore di tensione, finalmente la buona notizia è arrivata: la sorella e la madre di I. erano passate per il valico settentrionale di Gaza.

U., la sorella, aveva appuntamento in un ospedale israeliano alle dieci di mattina per un secondo trattamento contro il cancro. Alle otto e mezza lei e sua madre erano ancora in attesa dal lato palestinese della frontiera.

I., un avvocato dei diritti umani che conosce bene la burocrazia militare israeliana, era sempre più nervoso. Telefonava a mezzo mondo per cercare di capire cosa impedisse alla sorella e alla madre di passare. Gli israeliani sostenevano di non aver ricevuto nessuna richiesta.

I coordinatori palestinesi (che rispondono alle autorità di Ramallah) ripetevano di aver inviato la richiesta una settimana prima. Poi gli israeliani hanno detto che la donna aveva effettivamente un permesso, ma valeva solo per la Cisgiordania e non permetteva l’ingresso in Israele. Insomma, non si poteva passare.

Non c’era tempo per cercare di capire di chi fosse la colpa. Se U. avesse saltato l’appuntamento, ci sarebbero voluti giorni prima di riuscire a organizzarsi di nuovo con l’ospedale e con l’esercito.

E dal punto di vista medico non era consigliabile. I., che conosce molti israeliani e membri di ong, ha ricominciato a telefonare. Conosce anche qualcuno che poteva chiamare le autorità di Ramallah. Anch’io ho fatto la mia parte. A quanto pare uno dei canali contattati ha funzionato, perché alle tre del pomeriggio le due donne hanno attraversato la frontiera.

Fortuna. Buoni contatti. Ma gli altri come fanno? Ogni giorno vengo a sapere di persone malate che devono essere curate in ospedali fuori della Striscia di Gaza, ma non ci possono andare. L’Egitto apre raramente il valico di Rafah, e spesso è solo per far passare politici e giornalisti. Israele, invece, nega il permesso d’ingresso per “motivi di sicurezza” (a volte è sufficiente avere un lontano parente sostenitore di Hamas).

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