È stato un lavoro di squadra, realizzato da alcuni giovani attivisti. Così è nato l’opuscolo con le agghiaccianti testimonianze dei soldati che a gennaio hanno partecipato all’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza.
Durante l’attacco, e subito dopo, i ragazzi di Shovrim Shtika (Rompere il silenzio) hanno contattato migliaia di soldati per convincerli a raccontare la loro esperienza (violando gli ordini dei loro comandanti). Solo poche decine di soldati hanno avuto il coraggio di parlare: erano ancora convinti che l’offensiva fosse necessaria, ma erano turbati da quello che avevano fatto e a cui avevano assistito.
Shovrim Shtika è un’associazione creata da ex soldati nel 2004 per denunciare gli abusi commessi dall’esercito. Molti dei fondatori sono ebrei ortodossi. Tutti hanno prestato servizio a Hebron, in Cisgiordania, rimanendo colpiti dalla violenza dei coloni e dall’espulsione di migliaia di palestinesi dalle loro case.
“Cinquantaquattro soldati israeliani hanno smentito i rapporti ufficiali dell’esercito”, si legge nell’annuncio dell’associazione. “Hanno parlato della distruzione immotivata delle case, del lancio di bombe al fosforo in aree popolate e di un clima che imponeva di sparare sempre e comunque”. L’esercito ha reagito con una campagna senza precedenti di attacchi personali e tentativi di delegittimazione. Molti giornalisti si sono uniti alla caccia. Anche se i membri dell’associazione sono ex soldati, hanno tutti meno di trent’anni e sono rimasti traumatizzati. Alla fine di ogni giorno di “lavoro” dovevano affogare il dolore in un bicchiere di birra.
Dopo aver elogiato questo lavoro di squadra, vorrei citarne un altro a cui la scorsa settimana non ho reso giustizia. La scuola di pneumatici e fango in costruzione per la tribù jahaleen a est di Gerusalemme è opera di un giovane gruppo di ingegneri, architetti e dottorandi, con il supporto del Laboratorio di costruzione del paesaggio e dell’architettura dell’Università degli studi di Pavia.
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