Solo la presenza di alcuni gruppi di pacifisti permette ai palestinesi di restare nelle loro antiche terre, scrive Amira Hass.
In questi giorni ho continuato a fare incursioni nelle zone della Cisgiordania dove i palestinesi non possono costruire (l’area C).
La visita più interessante è stata quella agli insediamenti rupestri a sud di Hebron, dove secoli fa si stabilì una comunità di pastori. Vivevano in grotte o tende fatte di lana di capra, e tenevano le pecore in capanne di pietra. Nel tempo si sono formati alcuni villaggi.
Tuttavia, alla fine degli anni settanta Israele ha introdotto un rigido divieto di costruzione. Da allora, oltre a emettere ordini di demolizione, Israele ha fatto in modo che gli edifici non fossero collegati alla rete idrica e a quella elettrica (a differenza delle vicine colonie ebraiche).
Schiacciati tra due avamposti ebraici non autorizzati e alcune colonie (illegali ma autorizzate), gli abitanti palestinesi erano stati cacciati dai coloni e dai militari più di dieci anni fa.
Una battaglia legale e popolare, guidata da Rabbis for human rights e dal gruppo araboisraeliano Ta’ayush (Vivere insieme), ha costretto il governo israeliano ad ammettere che i palestinesi avevano il diritto di vivere sulla loro terra.
Questa settimana sulle colline che dominano i villaggi sono spuntati alcuni serbatoi d’acqua, collegati alle case da un lungo tubo di plastica. Un pannello solare permette agli abitanti di ricaricare i telefoni cellulari e piccoli apparecchi elettrici. I serbatoi e il pannello (ma anche molte tende) sono un dono delle due associazioni.
Nell’ultimo mese i coloni hanno cercato di spaventare gli abitanti e di mandarli via di nuovo. Ma la presenza quasi quotidiana degli attivisti israeliani e internazionali gli ha permesso di restare.
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