Sapevo che il giudice avrebbe indossato una kippah, a indicare che è un ebreo osservante. È un colono, ed è quindi portato ad avere una mentalità di destra. Il giudice doveva decidere il destino di un palestinese di Gerusalemme, Imad Hammada.
Vent’anni fa Hammada era andato a studiare negli Stati Uniti, perché le università palestinesi erano chiuse a causa della prima intifada. Dopo essersi specializzato in nanotecnologia, è tornato nei Territori con la moglie e i figli.
Ma quello che è permesso agli israeliani è vietato ai palestinesi nati a Gerusalemme: se rimangono all’estero troppo a lungo o se ottengono la cittadinanza (come ha fatto Hammada), il loro status di residenti di Gerusalemme è revocato. Questo significa essere espulsi dal loro paese (e non poter vivere nella città dove sono nati!).
Il giudice continuava a definire Hammada un “visitatore illegale”. Cercando di contenere la rabbia, pensavo a quel che c’è dietro alla politica israeliana: la volontà di svuotare Gerusalemme del ceto medio e degli abitanti più istruiti.
Mentre l’avvocata di Hammada contestava l’uso del termine “visitatore illegale”, mi sono chiesta se dovevo fare riferimento alla kippah. Naturalmente no. Anche se molti la indossano per una precisa scelta politica, non è così per tutti.
Il genero dell’avvocata, per esempio, porta la kippah ma partecipa alle proteste contro l’espansione degli insediamenti a Gerusalemme. E la portano anche molti altri attivisti antioccupazione.
*Traduzione di Nazzareno Mataldi.
Internazionale, numero 851, 18 giugno 2010*
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