Non posso incontrarla né chiamarla a casa. Possiamo parlare al telefono solo quando si trova in Israele, nella casa dove fa le pulizie una volta alla settimana. A mettermi in contatto con lei è stato il suo datore di lavoro israeliano. Voleva condividere con me il problema di una ragazza palestinese che, come migliaia di altre donne, esce di casa ogni giorno alle tre del mattino per raggiungere, quaranta minuti dopo, un checkpoint che apre alle quattro per i fortunati che sono riusciti a trovare un lavoro in Israele.

La ragazza, come le altre donne che attraversano il checkpoint, lavora nel settore agricolo, ma arrotonda lo stipendio facendo le pulizie in un sobborgo israeliano lussuoso e tranquillo. Andrebbe tutto bene, se non fosse che il varco apre solo per 10 minuti e chiude prima che tutte le donne riescano a passare. Il varco, chiamato “umanitario” dai suoi inventori israeliani, è destinato alle persone in sedia a rotelle e ad altri casi urgenti. In un secondo momento è stato deciso di aprirlo anche alle donne, per evitare che stiano in fila troppo vicine agli uomini che vanno a lavorare in Israele. Ma dato che il varco apre per così poco tempo, molte donne sono obbligate a mettersi nella fila normale, dove alcuni uomini, protetti dall’oscurità, allungano le mani e le molestano. Come se non bastasse, le donne hanno paura di condividere con la loro comunità e la loro famiglia l’umiliazione, la rabbia e l’impotenza che provano quando uno sconosciuto palpa i loro seni e le loro gambe.

La ragazza ha deciso di parlarne al datore di lavoro israeliano, che oltre a me ha contattato alcuni attivisti di un gruppo che si batte contro i checkpoint (MachsomWatch). Ho inviato una lettera al ministro della difesa, che delega la gestione dei checkpoint ad aziende di sicurezza private. Mi hanno fatto sapere che devo inoltrare la mia richiesta (“perché non aprite un varco speciale per far passare tutte le donne”) al portavoce del Coordinamento delle attività del governo nei Territori (Cogat). Anche se si tratta di un’unità del ministero della difesa, a quanto pare ha una burocrazia tutta sua. Una delle attiviste si è rivolta al Cogat con la stessa richiesta, ma le hanno risposto che al momento non hanno i mezzi e le risorse umane per mantenere il varco aperto più a lungo.

Strette tra l’indifferenza della burocrazia e la violenza degli uomini, le donne non possono lamentarsi in pubblico perché hanno paura di pagarne loro le conseguenze, come se fossero colpevoli di qualche crimine. Magari qualcuno si limiterebbe a dire: “Che problema c’è? Basta non andare a lavorare in Israele”.

Traduzione di Andrea Sparacino

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it