Non si lascia sfuggire una manifestazione e ha partecipato anche a quella che si è svolta il 22 gennaio nel centro di Ramallah: è un palestinese sui settant’anni con un berretto bianco in testa e capelli che un tempo devono essere stati rossi. Quel giorno aveva una kefiah rossa al collo, gli occhi pieni di lacrime e le labbra che tremavano. Teneva in mano un cartello con la foto del figlio Rami, un detenuto amministrativo nelle carceri israeliane. La fotografia mostrava un ragazzo giovane. Ma era una foto vecchia, molto probabilmente scattata prima che fosse processato e condannato all’inizio della seconda intifada per aver fatto parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e per aver fabbricato una bomba piazzata su un autobus a Gerusalemme e rimasta inesplosa.

Oggi Rami ha trentanove anni. Dopo il suo rilascio nel 2014 è stato incarcerato di nuovo senza processo solo perché un ufficiale dell’esercito israeliano ha stabilito che rappresenta “un pericolo” e perché alcuni ufficiali dei servizi di sicurezza dello Shin Bet hanno bisbigliato qualcosa all’orecchio di un giudice militare che si è affrettato a confermare l’ordine di detenzione. Come Rami, oggi altri 480 palestinesi si trovano in quella che gli israeliani chiamano detenzione amministrativa. Senza processo, senza il diritto di sapere di cosa sono accusati, senza prove. È una condizione opprimente, che non ha una fine certa: per la maggior parte dei detenuti viene infatti prolungata più volte.

Il 22 gennaio il vecchio è arrivato a Ramallah, in piazza Al Manara, insieme ai genitori di altri prigionieri palestinesi, anche loro con la fotografia dei figli in mano. In passato alcune di queste persone sono state processate per azioni contro l’occupazione e sono finite in carcere. La paura per i propri figli, però, è sempre più grande della paura per se stessi.

Lo stesso giorno le forze scelte dell’Israel prison service hanno fatto irruzione nelle celle della prigione di Ofer, che dista meno di sette chilometri dal luogo della manifestazione. Irruzioni simili c’erano già state il 20 gennaio a Ofer e in altre due prigioni. Le autorità dicono di aver confiscato del materiale scritto e non meglio precisati “strumenti di combattimento”, dei cellulari (a differenza dei prigionieri per reati comuni, i detenuti politici palestinesi non hanno accesso ai telefoni pubblici e per questo cercano di procurarsi dei cellulari, spesso grazie anche alle guardie carcerarie che chiudono un occhio). Secondo i palestinesi, invece, il motivo di queste violente irruzioni e del generale inasprimento delle condizioni riservate ai prigionieri palestinesi è il desiderio del ministro della sicurezza israeliano Gilad Erdan d’ingraziarsi i membri del partito nazionalista Likud in vista delle elezioni di aprile.

L’Israel prison service ha pubblicato immagini e filmati delle forze speciali che irrompono in una delle ali della prigione di Ofer dove sono detenuti 1.200 palestinesi. Gli agenti sono armati di fucili e manganelli, hanno il volto nascosto da maschere a gas, indossano divise nere e grigie e sono accompagnati da cani addestrati. Basterebbe questo a provocare un infarto ai genitori dei prigionieri, che ancora non sanno quanto di vero ci sia nelle notizie riportate dai mezzi d’informazione palestinesi: più di cento feriti tra i detenuti, fratture causate dai colpi ricevuti, uso di gas lacrimogeno, gas al peperoncino e proiettili di gomma, tra venti e venticinque detenuti ricoverati in ospedale ma poi riportati dentro. A cosa bisogna credere?

Solidarietà tiepida
Alcuni avvocati hanno incontrato i prigionieri che si trovavano nei blocchi in cui gli agenti non hanno fatto irruzione. Tutti hanno avuto problemi respiratori a causa del gas lacrimogeno, ma non hanno confermato gli altri dettagli perché non erano in contatto con i detenuti dell’ala dove sono entrate le forze speciali. In seguito un avvocato ha scritto su Facebook che non c’è stata alcuna sparatoria. L’avvocato non ha parlato di fratture, ma ha scritto che la maggior parte dei prigionieri ricoverati ha avuto difficoltà respiratorie. Dovranno passare alcuni giorni prima che si chiariscano tutti i particolari e nel frattempo le loro famiglie sono sempre più angosciate.

Alla manifestazione di Ramallah hanno aderito poche decine di persone. La speranza dei promotori, tra cui spiccano il partito Al Fatah, Hamas e le organizzazioni di sinistra, era quella di spronare il pubblico palestinese a manifestare solidarietà con i prigionieri, che oggi sono circa 5.500.

Si dice che almeno una o due persone in ogni famiglia palestinese siano finite in carcere per essersi opposte all’occupazione. Nonostante questo, in pochi si sono uniti ai manifestanti. I passanti li guardavano con un misto di tristezza e straniamento, oppure tiravano dritto senza neanche guardarli. Hanno preferito approfittare dell’ultimo giorno di vacanza dalla scuola per fare acquisti con i figli.

(Traduzione di Federica Giardini)

Questo articolo è uscito nel numero 1292 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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