Quando ci troviamo in una condizione di incertezza, ci è impossibile tenere a bada non solo un contesto che oggettivamente sfugge al nostro controllo, ma i nostri stessi pensieri.
L’incertezza si traduce così in uno stato di allarme che, non avendo un oggetto preciso, è ondivago e suscettibile a qualsiasi nuovo stimolo esterno.
Tutto ciò provoca irritazione e disagio. Può arrivare a deprimerci, a paralizzarci o a riempirci d’angoscia.
Nel tempo, ci siamo inventati mille strategie per tenere a bada l’incertezza: stipulare assicurazioni e altri contratti. Attivare strumenti di pianificazione, previsione e verifica. Rilasciare attestati e certificazioni. Formulare regole e leggi, promesse e giuramenti. Istituire procedure e gerarchie. Sostenere esami ed eseguire accertamenti. Accumulare denaro.
Un incremento di complessità, di interconnessione e di opzioni possono solo aumentare – e non certo diminuire – i gradi di incertezza
Quella dello sviluppo delle discipline scientifiche è stata, con ogni probabilità, la strategia più efficace tra tutte. Da una parte il progresso scientifico riduce costantemente, o almeno sposta più in là, il punto in cui gli orizzonti diventano incerti. Dall’altra, la scienza comprende in sé l’idea stessa di incertezza, e la considera nelle proprie teorie, nei propri metodi, nei processi di validazione.
A partire dal secondo dopoguerra abbiamo costruito un mondo in cui l’incertezza sembra essere progressivamente scivolata ai margini: quelli più remoti, più disagiati, più sfortunati e meno visibili.
Valorizziamo l’idea di comfort, e tutti gli strumenti che possono procurarcene ancora di più. Ignoriamo l’intrinseca fragilità dei sistemi che abbiamo costruito, la nostra fragilità individuale e quella del pianeta che abitiamo e che sfruttiamo con rapacità incosciente.
Non riusciamo a renderci conto del fatto che un incremento di complessità, di interconnessione e di opzioni possono solo aumentare – e non certo diminuire – i gradi di incertezza. E non basta: pretendiamo di ottenere risposte chiare e soluzioni efficaci e certe, anche quando è oggettivamente impossibile averne perché la situazione è in sé instabile, ambigua, confusa. O perché è del tutto inedita e imprevedibile nei suoi sviluppi.
Ci sono però alcune cose che, come singoli individui, possiamo fare non tanto per rendere i tempi meno incerti quanto per imparare a negoziare con il nostro individuale senso di incertezza.
L’incertezza ci rende più attenti e ci aiuta a imparare
Del resto, almeno in questo specifico momento, non sembra che abbiamo alternative migliori.
O ci facciamo travolgere dall’incertezza (risultato: disorientamento e caos). Oppure tentiamo – vanamente – di azzerarla tenendo tutto sotto controllo (risultato: paranoia e frustrazione). O facciamo finta che tutto proceda normalmente (risultato: comportamenti poco sensati e pericolosi).
C’è però una quarta alternativa: accettare l’incertezza, facendo una scelta di flessibilità adattiva. Questo significa anche darsi da fare per cavare, da una situazione negativa, qualche elemento positivo.
D’altra parte, essere adattabili è una delle caratteristiche più preziose della nostra specie. Alla faccia della nostra propensione ad adagiarci nel confort, forse possiamo provare a valorizzarla anche a livello personale.
Per esempio.
Il nostro cervello non impara in ogni momento, ma individua le situazioni in cui un nuovo apprendimento è necessario, e determina quale tipo di apprendimento è più benefico. Lavora poco quando i contesti sono prevedibili, ma lavora più intensamente quando le circostanze cambiano. A dircelo è uno studio svolto dall’università di Yale. Approfittiamone: l’incertezza ci rende più attenti e ci aiuta a imparare.
Tra le molte cose che possiamo imparare ce n’è una importante: essere pazienti. Scrive lo psicoanalista Luigi Zoja:
La nostra mente non è più abituata ad aspettare e tantomeno a pensare con pazienza. Eppure anche i nostri pensieri difficilmente sono istantanei: quelli veri giungono solo dopo qualche attimo, solo dopo averli ‘chiamati’. La mente che interviene in modo istantaneo, dunque, si disabitua a pensare articolatamente.
A proposito di pensieri articolati. In questo periodo, leggere un romanzo può essere una buona idea e una grande opportunità. Allarga gli orizzonti e fa viaggiare con la mente ben oltre le mura di casa e il perimetro della provincia. Migliora il tono dell’umore e accresce l’empatia. Ce lo dicono i neuroscienziati: leggere romanzi cambia il cervello, per davvero.
In più, ci aiuta a tirare il fiato e a staccare lo sguardo dagli schermi e dal flusso intossicante delle notizie.
Il dover modificare il nostro modo di lavorare, o il non poter più fare cose che fino all’altro ieri ci apparivano scontate, può anche aiutarci a ragionare su ciò che è davvero importante e a capire quali sono le nostre priorità. Magari a ridefinirle, perché forse, senza che ce ne accorgessimo, sono cambiate con il passare del tempo. O forse stanno cambiando proprio adesso.
Inc. elenca dieci priorità per il benessere materiale ed emozionale. Probabilmente non le condividiamo tutte, ma la numero 10 merita, credo, di essere segnalata qui: “Praticare un sano distacco (nonattachment) da idee, piani e aspettative, sapendo che la flessibilità rende adattabili”. E che essere adattabili aiuta a vivere meglio.
Infine: una ricerca dell’università statale di Mosca, fondata su un’ampia rassegna dei maggiori studi internazionali riguardanti la creatività e su un ugualmente ampio campione, istituisce un legame positivo piuttosto forte tra attitudine creativa e capacità di tollerare l’incertezza. È un motivo ulteriore per provarci.
Un caro saluto da Milano.
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