Il progetto europeo è morto? Decisamente no. Le opinioni pubbliche sembrano frastornate, attirate dalle sirene populiste di destra (Regno Unito, Francia e, in misura minore, Germania) e di sinistra o radicali (Italia, Spagna): alcuni segnali elettorali sono inequivocabili. Eppure le cose sono molto più complicate e forse le valutazioni, gli umori e anche i desideri proiettati al futuro potrebbero riflettere addirittura lo scenario opposto. Comunque la partita è aperta.

Un recente sondaggio del Pew research center condotto in sei grandi paesi dell’Unione (Spagna, Regno Unito, Italia, Germania, Polonia e Francia) mette insieme i pezzi di quello che potrebbe essere un nuovo puzzle. Nonostante la crisi, le difficoltà della Grecia, le divisioni strategiche tra i governi sulla politica estera, il commercio, l’immigrazione, gli europei sembrano più ottimisti sull’Unione europea: una media del 61 per cento degli intervistati dichiara di averne un’opinione favorevole, nove punti in più rispetto a due anni fa.

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I più favorevoli sono i polacchi (72 per cento), i più scettici i britannici al 51 per cento. Secondi gli italiani, seguiti da spagnoli, tedeschi e francesi. Sono dati da prendere con le molle perché non c’è niente di più volatile e infido dei sondaggi. Il caso della Polonia la dice lunga: le interviste Pew sono state condotte fino al 13 maggio e undici giorni dopo i polacchi hanno eletto presidente il nazionalista Adrzej Duda, candidato degli euroscettici e dei russofobi, con il 53 per cento dei consensi. Tuttavia, i sondaggi possono fornire indicazioni utili, almeno del materiale grezzo per comporre il puzzle vero.

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Intanto gli umori dei britannici. Nel 2013 nel giudizio sull’Unione europea erano spaccati come una mela: il 46 per cento voleva restare, il 46 per cento uscire. Adesso il 55 per cento vuole restare, il 36 per cento vuole abbandonarla. Da quando David Cameron ha cominciato a parlare di referendum, sembra che l’idea di abbandonare l’Unione piaccia sempre meno. È un risultato significativo che conferma un andamento diventato marcato nel corso del 2014, perché avviene nel momento in cui Cameron è impegnato direttamente nella campagna per ricontrattare la permanenza del Regno Unito nell’Ue. L’obiettivo è riportare in patria pezzi di sovranità: immigrazione e diritti sociali (Londra vuole proibire il sostegno pubblico agli immigrati europei nei primi quattro anni di residenza), diritto del parlamento di bloccare regole europee, riconoscimento del principio che possono essere trasferiti dei poteri dall’Unione agli stati e non solo il contrario.

A maggio sono stati effettuati cinque sondaggi nazionali sul referendum yes or no: l’ultimo di fine mese ha indicato che il 58 per cento dei britannici intervistati voterebbe sì alla permanenza nell’Unione, il 31 per cento ha risposto no (11 per cento gli incerti). Nei quattro sondaggi precedenti il sì era sempre sotto il 50 per cento, il no non superava il 36 per cento, gli indecisi erano più numerosi. Nel trionfo (virtuale) dei sì ha pesato la recente vittoria elettorale dei conservatori, oggi in grado di governare da soli. È l’effetto fiducia sulla capacità (tutta da dimostrare) di Cameron di convincere gli altri governi a chiudere la fase dell’integrazione europea ad alta intensità. L’opinione pubblica dà per scontato che qualche risultato positivo ci sarà. Se non fosse così – soffiano sul fuoco gli euroscettici dell’Ukip – i risultati dei sondaggi sarebbero ben diversi.

In quattro paesi su sei, almeno metà o la grande maggioranza degli intervistati ritiene positivo l’emergere di partiti non tradizionali, in cui si mescolano a varie tinte euroscetticismo e populismo

L’opinione favorevole verso l’Unione ha molto a che vedere con la percezione della fine della lunga e penosa recessione. Certo, non si vedono ancora i frutti della ripresa, vista la sua debolezza, e l’opinione sul futuro, anche individuale, resta improntata al pessimismo e questo non stupisce data l’alta disoccupazione. Eppure oltre metà dei tedeschi e dei polacchi ritiene che l’integrazione economica europea abbia comunque rafforzato le economie nazionali.

La pensa così anche il 49 per cento dei britannici, su questo molto pragmatici, a dimostrazione che per economia e finanza l’Unione è un vero affare. L’integrazione ha fatto bene solo secondo tre francesi su dieci e un italiano su dieci. Vuol dire che ci sentiamo davvero alla periferia della competitività, molto peggio di quanto l’Italia stia in realtà. Non a caso, comunque, italiani e francesi sono i più pessimisti sull’economia.

Altra indicazione utile e a prima vista paradossale: gli stessi che hanno un’opinione favorevole all’Unione europea considerano un’ottima notizia il decollo di partiti e movimenti “contro”. In quattro paesi su sei, almeno metà o la grande maggioranza degli intervistati ritiene positivo l’emergere di partiti non tradizionali, in cui si mescolano a varie tinte euroscetticismo e populismo: in Spagna (dove ha sfondato Podemos) il 70 per cento, nel Regno Unito (con l’euroscettico Ukip) il 66 per cento, in Italia (con i cinquestelle) il 58 per cento, in Germania il 50 per cento (Alternative für Deutschland ha il 6 per cento e forse entrerà in parlamento solo alle prossime elezioni). In Polonia e in Francia è contento degli euroscettici il 36 per cento degli intervistati (in Francia gioca il successo del Front national di Marine Le Pen, oggi secondo partito prima dei socialisti).

La coesistenza tra opinioni favorevoli, o non sfavorevoli, al quadro europeo e movimenti politici che lo contestano apertamente da sinistra o da destra, è la novità sulla quale i politici dovrebbero riflettere: perlomeno significa che l’opinione favorevole non si tramuta automaticamente in fiducia e questa a sua volta può trasformarsi solo temporaneamente in un patrimonio elettorale. Il quadro dunque è di instabilità e di mobilità delle opinioni.

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