Primo episodio. Il 21 maggio scorso l’ufficio del vicedirettore per la stabilità finanziaria della Banca d’Inghilterra, Jon Cunliffe, ha inviato un’email riservata a quattro senior executive, da cui risultava che la banca stava studiando le conseguenze finanziarie di una vittoria del no al referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Soprattutto, il testo specificava che questo studio doveva rimanere segreto. Invece il responsabile stampa della banca centrale Jeremy Harrison ha digitato il tasto sbagliato e l’email è arrivata a un giornalista del Guardian. Così la notizia ha fatto il giro del mondo.

La reazione della Banca d’Inghilterra è stata immediata: ostentando tranquillità, un portavoce si è rammaricato per la “sfortuna” e ha detto senza perifrasi: “Non deve sorprendere, ci sono molte questioni economiche e finanziarie da analizzare nel contesto della rinegoziazione (dei rapporti con l’Unione) e del referendum”. L’incidente è stato chiuso rapidamente senza strascichi polemici. La preoccupazione principale è stata per gli effetti sul parlamento, che vorrà essere informato e, soprattutto, vorrà sapere se sono in corso altri studi segreti. Per inciso, il governatore Mark Carney (canadese) ha fatto proprio della trasparenza uno dei suoi cavalli di battaglia.

Secondo episodio. La settimana scorsa è scoppiato il caso del “piano B” per la Grecia: cosa accadrebbe e cosa dovrebbero fare le autorità politiche e monetarie elleniche ed europee in caso di default, cioè se il governo di Atene dichiarasse di non poter garantire i pagamenti.

La notizia che gli sherpa dei ministri delle finanze della zona euro ne avevano parlato giovedì in una riunione a Bratislava è circolata il giorno dopo. Sono state ore di grande incertezza, con soprassalti nelle borse. Solo dopo parecchio tempo il ministro lituano delle finanze, Rimantas Sadzius (non uno di quelli che hanno grande influenza sulle decisioni europee), ha dichiarato che i governi “devono valutare tutte le possibilità”, senza smentire né confermare l’esistenza del piano B.

I due episodi sono molto simili: entrambi hanno a che fare con gli effetti di uno scenario indesiderato che altererebbe radicalmente gli equilibri esistenti. Entrambi riguardano la rivelazione di discussioni segrete all’interno di autorità pubbliche su fatti di grande rilevanza. La reazione della Banca d’Inghilterra e dei ministri delle finanze europei è stata un po’ diversa, nel senso che la prima ha dato l’impressione di cavarsela meglio: scoperti con le mani nel sacco, i responsabili le hanno fatte vedere ed è morta lì. La sfortuna c’è stata, ma al referendum sull’Unione europea mancano ancora uno o due anni. La flemma della Banca d’Inghilterra è giustificata dal calendario.

È dallo scoppio della crisi greca, cinque anni fa, che ciclicamente i piani B si affacciano e spariscono

Nel caso della Grecia le cose sono molto più complicate, e pasticciate dalla crescente tensione sugli sviluppi del negoziato con i creditori: ogni virgola, ogni parola fuori posto può far saltare equilibri estremamente precari. La semplice evocazione della lettera B scatena l’inverosimile. È dallo scoppio della crisi greca, cinque anni fa, che ciclicamente i piani B si affacciano e spariscono. I privati, le grandi banche, hanno inondato i loro uffici di studi e di analisi di piani B. Ogni tanto li pubblicano anche, per far vedere che tutelano il denaro degli altri e per fare pressione sui governi. Oggi che il debito greco è quasi completamente nelle mani di governi e istituzioni sovranazionali (su 316 miliardi di euro solo 55 miliardi sono detenuti dal settore privato) hanno ancora meno peli sulla lingua.

Le autorità pubbliche, dai ministri ai banchieri centrali al commissario europeo di turno, fanno lo stesso ma negano. Fanno a gara per dissimulare ciò che logicamente non si può: se nei cassetti dei ministeri delle finanze, della Bce e delle banche centrali non ci fosse un piano B su cosa fare in caso di mancato accordo tra i creditori e la Grecia (la cosa migliore sarebbe che ce ne fosse uno solo), ci sarebbe da preoccuparsi seriamente. Si tratterebbe di omissione d’atti d’ufficio.

In effetti, sugli scenari possibili per la Grecia ci si confronta da anni, non dall’altro ieri. Da qualche parte ci sono anche gli studi, le analisi sui rischi per la Grecia, per i paesi dell’euro e per l’unione monetaria in quanto tale. Rischi finanziari, economici e politici. Perché nessuno lo dice?

C’è innanzitutto un problema di riservatezza: se preparare le alternative è doveroso, parlarne nel dettaglio può essere molto pericoloso. Nessun governo vuole offrire armi alla speculazione finanziaria per scommettere su questo o quello scenario, sapendo che una volta innestati certi meccanismi, la valanga diventa inarrestabile e le probabilità che accada il peggio aumentano.

È così, infatti, che lo scenario ipotizzato diventa profezia, la profezia diventa aspettativa e, come insegna la nota teoria, si tratta di aspettative che possono facilmente autorealizzarsi. Oggi questo meccanismo ha un elemento in più: per quanto i governi cerchino di agire in direzione contraria, in vari settori politici (anche in Germania nel partito di Angela Merkel) di diversi paesi da tempo si pensa che la zona euro starebbe meglio se la Grecia fosse espulsa o sospesa.

Purtroppo, quando si parla di piano B per la Grecia il pensiero corre subito all’uscita dall’euro, come se il mancato pagamento di una rata al Fondo monetario implicasse automaticamente l’abbandono della moneta unica.

Le cose non stanno così e il presidente dell’eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, lo ripete da mesi, restando inascoltato. Prima di arrivare allo scenario estremo – peraltro non voluto dai greci – ci sono varie tappe, si possono fare vari tentativi, dallo stop alla libera circolazione dei capitali in Grecia all’introduzione di una valuta parallela. È per evitare che la situazione gli sfugga di mano che i creditori preferiscono tacere sull’esistenza di un piano B. Così, però, alimentano dubbi e ambiguità controproducenti.

Si tace sul piano B perché si teme di indebolire lo sforzo per trovare un accordo sostenibile per tutti e di infiammare i mercati. Tale sforzo è enorme non solo perché i greci si sono rivelati un osso durissimo, ma anche perché i creditori sono divisi su troppe cose, basti vedere il recente irrigidimento del Fondo monetario internazionale e i diversi giudizi sull’andamento del negoziato che trapelano tra i ministri dei grandi paesi.

Nessuno sembra sfiorato dal dubbio che se fossero adeguatamente informate sugli scenari peggiori e sui loro effetti, dal piano B al piano G di Grexit, le opinioni pubbliche, innanzitutto quella greca, avrebbero più elementi per capire se Tsipras e i creditori agiscono bene o male.

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